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Claudio Amendola ha deciso di racconta una parte della sua vita. Quella che va dagli 11 fino ai 32 anni. Lo ha fatto scrivendo un libro: “Ma non dovevate anda’ a Londra”.
Un ragazzino che ha vissuto, per colpa o per merito di sua madre Rita Savagnone, la politica. Dai panini portati ai scrutatori al viaggio nell’Europa dell’Est. GIà. «Mia madre — racconta al Corriere della Sera — anziché portare me e mio fratello Federico a Londra, come ogni ragazzino sogna, ci caricò su una Fiat 128 in una rocambolesca avventura tra ex Jugoslavia, Romania e Bulgaria, alla ricerca di quello che ai suoi occhi sembrava il Paradiso perduto; sulla carta, uguaglianza e pari opportunità, l’Europa dell’est, periferia dell’impero sovietico». Ora invece a 60 anni la politica «non la vivo: la guardo e la piango, la amo e non la riconosco».
Un libro dedicato alla madre e ai suoi ideali.
Ideali che alla fine crollarono davanti all’evidenza. «Era una militante entusiasta del Pci — racconta ancora l’attore in un’intervista al Corsera — Era convinta che nel giro di qualche anno il cirillico sarebbe stato la lingua più parlata al mondo. Era una madre così diversa dalle altre, così fuori dalle regole, indipendente. Avevamo un rapporto fisico, effusioni, coccole, abbracci. In quel viaggio ci imbattemmo nella burocrazia insopportabile, nei negozi vuoti, nella tristezza. Lei fino all’ultimo difese quel sistema, l’importante sono i principi, diceva. Alla fine la realtà superò l’utopia e pianse. Tutto quello in cui aveva creduto si stava sgretolando…».
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Si parla di mangiare, di cucina e Claudio ammette che «ogni giorno della mia vita sono stato in sovrappeso di almeno tre, quattro chili. Ma non mi sono mai sentito a disagio».
Parla dei suoi genitori e di una separazione che lui non ha vissuto: «Avevo un anno e nessuno mi ha mai spiegato bene perché si lasciarono. Papà lo vedevo nel weekend, non c’è stata una sera che non mi abbia dato la buonanotte al telefono. Lui era il divertimento, la Roma, il tennis, le carte, le magnate in compagnia. A 14 anni andai a vivere da lui a Formello e alle sue cene con gli altri doppiatori volevano venire i miei amici per sentire le voci degli attori, Sean Connery, Robert Redford, mentre io volevo andare in centro; papà quando doppiava Er Monnezza-Tomas Milian diceva una infinità di parolacce e i miei amici mi ossessionavano per farsi mandare aff… da lui. Gli dicevo, pa’, devi mandare aff… un amico mio. E lui: ma perché, mi sembra una cosa da maleducati. Oggi mi diverte, allora mi sembrava una assurdità».
Non segue più il calcio come prima, forse anche per colpa di Ultrà. Il film gli provocò qualche problema con il tifo organizzato della sua Roma. E della sua Roma è ancora innamorato? «I padroni sono stranieri che ti comprano come una rosetta e ti fanno diventare un filone di pane, senza metterci gli ingredienti giusti. Sono disamorato, non della Roma ma del calcio, che appartiene alle piattaforme. Oggi del Manchester City contano più i tifosi che ha in Asia di quelli inglesi».
E a proposito di calcio, c’è un paragone perfetto per lui: «Mi ritrovo in George Best, il calciatore: ho speso gran parte dei miei soldi per alcol, donne e macchine veloci, il resto l’ho sperperato. Viaggi, ristoranti esagerati, belle macchine, andare a vedere la Roma ovunque, orologi, e oggi nemmeno li porto al polso. Molti soldi li ho proprio buttati. Nessuna rivalsa, era il gusto di spenderli, la non preoccupazione per il domani».
Cosa non rifarebbe? Una cosa sicuramente: «Lasciai la scuola dopo la terza media e fu una cretinata pazzesca, non mi andava di studiare, ma era un’altra Italia e se un ragazzo decideva di lavorare non era una follia, il lavoro c’era».
Tra le bravate, una notte a Regina Coeli a 18 anni «(«Avevo finito la benzina e la rubai da un’altra auto. Ebbi il processo, tre mesi con la condizionale e una multa di 300 mila lire»). Poi la cocaina. «Ho già fatto coming out. Come ne sono uscito? Una sera ero da solo con mio figlio Rocco. Stava male e per un attimo non ho saputo cosa fare. L’attimo dopo ero lucido e mi sono detto ora basta».
Claudio Amendola è anche un padre di tre figli: «Alessia e Giulia le ho avute dalla prima moglie, Alessia. Rocco da Francesca Neri. Se dovessi darmi un voto, direi 7 +. Sono stato un padre mediamente distratto e presente. Ho anche due magnifici nipoti di 8 e 4 anni, figli di Alessia. Ecco, come nonno mi do 4. Lavoro sempre, e sono pure pigro».
Nel libro si parla poco di Francesca Neri. Ma c’è un motivo: «Il libro si ferma agli Anni 80. E Francesca è un capitolo a parte, pulito, meraviglioso, intoccabile, che non condivido con nessuno».
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