Per Donald Trump è stato sin dall’inizio un punto in cima alla sua agenda. A tassare le grandi corporation del web americane, deve essere solo e soltanto il Fisco statunitense. Nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, il tycoon ha ritirato il Paese dall’accordo faticosamente raggiunto in sede Ocse sulla Global minimum tax, la tassa minima del 15 per cento che avrebbero dovuto pagare le varie Google, Amazon, Meta, nei Paesi dove fatturano miliardi lasciando poche briciole al Fisco locale. Un prelievo già recepito da una direttiva europea e attuato in Italia con il primo decreto della riforma fiscale. Poi il 21 febbraio ha firmato un altro ordine esecutivo mettendo in mora tutti i Paesi che hanno adottato web tax nazionali, accusandoli di aver messo in campo strumenti fiscali espropriativi dei profitti prodotti dalle Big tech americane, insieme con interventi di regolazione sui servizi digitali discriminatori a danno degli Usa. Anche in questo caso l’Italia è stata un’apripista del prelievo sulle BigTech, con la sua “web tax” del 3 per cento sui ricavi realizzati in Italia per le multinazionali che hanno un fatturato superiore a 750 milioni di euro a livello globale. Ma il mondo è cambiato. Nel comunicato diffuso dalla Casa Bianca dopo il vertice tra Trump e il Presidente del consiglio italiano, Giorgia Meloni, è stato messo nero su bianco che le parti hanno «concordato sulla necessità di un ambiente non discriminatorio in termine di tassazione dei servizi digitali».Cosa succederà adesso, dunque, alla Global minimum tax del 15 per cento già adottata in Italia e alla web tax nazionale del 3 per cento? La prima deriva da una direttiva europea e, dunque, la sua sospensione o cancellazione dovrà necessariamente passare per la Commissione.Ma sulla sua applicazione il vice ministro dell’Economia, Maurizio Leo, ha iniziato a nutrire qualche dubbio. Parlando di recente ad un convegno sul Fisco organizzato dalla Luiss, il responsabile della riforma fiscale aveva spiegato che la Global tax dovrebbe essere semplificata e soprattutto coordinata con Gilti, il regime fiscale introdotto negli Usa nel 2017, con aliquota del 13% per contrastare la pratica delle multinazionali di trasferire profitti da intangibili in giurisdizioni a bassa tassazione. Ed ecco perché nel governo, aveva anticipato Leo, si fa strada la convinzione di dover riaprire il dossier del fisco internazionale. Intanto la Global tax in Italia andrà avanti con il freno a mano tirato. Prima della metà del 2026 le multinazionali non dovranno comunicare i dati necessari a calcolare il prelievo. Nel frattempo si vedrà cosa accadrà.
I PASSAGGI
Ma accanto alla Global tax del 15 per cento, c’è da capire anche quale sarà il destino della web tax italiana. Già con l’ultima manovra, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, aveva provato a renderla più “digeribile” agli americani allargandola alle imprese italiane ed europee, eliminando il tetto dei 750 milioni di fatturato globale. Ne era nato un aspro scontro politico all’interno della stessa maggioranza, che aveva indotto il governo a una mezza marcia indietro. Potrebbe essere di nuovo questa la strada per andare incontro alle richieste statunitensi, ma ancora più semplice sarebbe quella di “congelare” il prelievo. Alcuni Paesi come l’India, lo hanno già fatto, annunciando nei giorni scorsi di aver abrogato il prelievo sulla pubblicità digitale. Un esempio che potrebbe fare da apripista per altri Paesi, anche perché le web tax nazionali sono frutto solo di scelte interne. Tutto dipenderà da come evolveranno le trattative nei 90 giorni nei quali Trump ha sospeso i dazi. Ma è ormai certo che la tassazione delle grandi corporazioni del web sarà uno dei temi centrali che l’America porterà al tavolo del negoziato.
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