Avanti sulle tutele «rafforzate» per gli uomini in divisa, per evitare l’iscrizione automatica nel registro degli indagati per quegli agenti che si trovano a far ricorso all’uso di armi o menare le mani agendo in situazioni di pericolo. Guai a chiamarlo “scudo penale” tra gli addetti ai lavori, ma anche tra chi, nelle file del governo o della maggioranza, lavora o tiene a cuore la questione. L’ultimo caso eclatante risale a inizio giugno a Grottaglie, nel tarantino. Il brigadiere Carlo Legrottaglie perde la vita in uno scontro a fuoco con due malviventi che si danno alla fuga. Ne scaturisce un inseguimento e una nuova sparatoria con la polizia, uno del due fuggitivi non ne esce vivo. Gli agenti coinvolti finiscono nel registro degli indagati: un atto dovuto, il codice penale parla chiaro. Parte addirittura una colletta spontanea tra la gente del posto: obiettivo supportare i due poliziotti nel sostenere le spese legali. Per il governo è un tema, o meglio un pallino, una questione sollevata anche dalla premier Giorgia Meloni nella conferenza di inizio anno e che vede la maggioranza compatta. E qualcosa sotto il sole, in effetti, si muove. Perché dopo aver varato il provvedimento che, tra le altre cose, introduce una stretta sulle occupazioni abusive, il reato di blocco stradale, il giro di vite sulle rivolte in carcere e sulla cannabis light, l’esecutivo già pensa ad altro, incurante dei dubbi della magistratura su quanto fatto finora e del fuoco di fila pronto a levarsi dalle file delle opposizioni.
IL COLLE
In realtà, di un “filtro penale” per gli agenti che intervengono nelle piazze si era già ragionato nel decreto finito nel mirino della Corte di Cassazione nei giorni scorsi. Poi la questione era stata messa in stand-by nel timore di irritare il Colle, che già aveva sollevato dubbi su alcune norme contenute nel provvedimento. «Serve una misura ad hoc», la convinzione, che muove da Meloni e investe il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, titolari del dossier.
L’idea è di non circoscrivere la tutela ai soli agenti che operano per la sicurezza. Ma estenderla anche a medici e infermieri, dunque a tutte quelle categorie «sensibili» che rischiano, in strada come in corsia. Si mira a istituire un «registro degli indagati ad hoc, alternativo — chiariscono fonti di governo interessate alla misura — che introduca una sorta di legittima difesa perenne, scudando chi rischia di finire nei guai operando per la collettività». Vale a dire una corsia preferenziale, ma non per tutti. Fuori i casi di negozianti che hanno usato le armi per difendere la propria attività. Battaglia cara alla Lega, ma che non ha alcuna speranza di entrare nella misura, viene precisato. Della riforma pensata per gli agenti ma che verrà estesa ad altre categorie — ancora da sciogliere il nodo degli errori in corsia, se rientreranno o meno nelle tutele previste — si è parlato anche giovedì scorso, in una riunione al Viminale tra i sindacati delle forze dell’ordine, il ministro Matteo Piantedosi e il sottosegretario, in quota leghista, Nicola Molteni. Sul tavolo il cosiddetto “decreto polizia”, un dl tecnico amministrativo che riguarda per lo più avanzamenti di carriera e concorsi ma nessuno scudo penale o tutele particolari per gli agenti impegnati in prima fila. Nel corso dell’incontro è arrivata la richiesta forte e chiara di maggiori garanzie per chi si trova a rischiare ogni giorno.
L’iscrizione nel registro degli indagati — va precisato — è un atto che consente all’indagato e alla persona offesa di conoscere l’esistenza di un’indagine a proprio carico e di esercitare i propri diritti di difesa. Ma innesca inevitabilmente un effetto domino. Nel decreto sicurezza, ad esempio, è stato introdotto il sostegno economico per le spese legali degli agenti che si ritrovano a dover affrontare un processo. Con un anticipo di spese fino a 10 mila euro per ciascun grado di giudizio. Un bell’aiuto, non c’è che dire, per le forze dell’ordine. Ma si tratta di soldi, hanno spiegato i sindacati al Viminale, che nel migliore dei casi arrivano dopo 6-7 mesi, mandando in apnea chi deve fronteggiare i costi di una perizia o dei legali. Anche perché chi finisce nel registro degli indagati può incorrere in brusche frenate negli avanzamenti di carriera, nonché ritrovarsi sotto tutela disciplinare. In tal caso, si potrebbe arrivare alla sospensione cautelare, che può durare fino a 5 anni, con dimezzamento dello stipendio.
L’ATTO DOVUTO
«Non si tratta di garantire agli agenti una sorta di impunità, è infatti sbagliato chiamarlo scudo penale — dice con forza Domenico Pianese, segretario del Coisp — vogliamo soltanto che le attività svolte nel rispetto dei doveri, senza indizi di gravità a carico, non facciano scattare automatismi, il cosiddetto «atto dovuto» che il più delle volte si trasforma in un dramma». Il governo sembra pensarla esattamente allo stesso modo, nella convinzione granitica di voler andare avanti. Con buona pace delle opposizioni, che ancora faticano a mandar giù il decreto sicurezza fresco di disco verde.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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