È il giorno di Raffaele Fitto e del tentativo di disinnescare i veti incrociati all’Eurocamera, mentre a sinistra (al netto delle esitazioni in casa dem) sono determinati a dare del filo da torcere all’esponente meloniano. Il candidato italiano al posto di commissario Ue nella squadra di Ursula von der Leyen, con delega alla Coesione e alle Riforme e i galloni da vicepresidente esecutivo, aprirà l’ultimo round delle audizioni parlamentari in un “Super Tuesday” tutto brussellese. Appuntamento questa mattina alle 9 in punto, seguito dagli altri cinque “pesi massimi” con cui condivide il titolo: 15 minuti di discorso programmatico, poi (fino a mezzogiorno) il quiz con domande e risposte da parte di una cinquantina di eurodeputati, la gran parte della commissione Sviluppo regionale (Regi).
Fitto va all’esame finale, il soccorso dei popolari
LE DOMANDE
I quesiti per metterlo alle strette — come da prassi — non mancheranno, ma le vere insidie arriveranno una volta chiuso l’esame orale, quando i capigruppo entreranno in camera di consiglio per deliberare sulla valutazione, e potenzialmente prolungare la permanenza del ministro salentino sulla graticola. Perché? Perché Fitto è l’unico nome in quota ai conservatori di Ecr, gruppo che a luglio negò (tranne poche eccezioni) i propri voti a von der Leyen in occasione dell’elezione-bis, incassata con i sì di popolari, socialisti, liberali e verdi.
I progressisti vorrebbero ripartire da quello schema nell’attribuzione delle vicepresidenze e infatti, a nel gruppo S&D c’è chi spiega che «il problema non è né Fitto» o la sua preparazione come commissario, «né l’Italia, ma la scelta politica fatta da von der Leyen di inserire in maggioranza l’Ecr». Il Ppe fa da scudo a Fitto — che nella lettera di presentazione all’Eurocamera ha rievocato il pedigree democristiano — ma per approvarne la candidatura, tuttavia, servono i voti dei capigruppo in rappresentanza di almeno i due terzi dei deputati della commissione parlamentare, soglia raggiungibile solo con una tregua al centro o a sinistra.
In caso di dubbio, si va ai supplementari con un altro giro di domande a cui rispondere oralmente oppure per iscritto: se lo stallo si protrae, la palla passa al plenum della Regi, chiamata a esprimersi a maggioranza semplice, ma a scrutinio segreto (con tutte le incognite del caso). In questa eventualità, le forze di destra e centrodestra potrebbero, da sole, avere i numeri per promuovere Fitto. Ma la logica che ha prevalso sin dalla calendarizzazione delle audizioni è quella del pacchetto, legando le sorti di ciascuno a doppio filo per evitare agguati e rappresaglie.
I VETI INCROCIATI
Un iniziale veto progressista contro Fitto, infatti, potrebbe avere un effetto domino e trascinare con sé anche la socialista spagnola Teresa Ribera (in pectore per Concorrenza e Transizione). «Porre sullo stesso piano Fitto e Ribera è inaccettabile», ha protestato ieri la connazionale e capogruppo S&D Iratxe García Pérez, sostenendo che «c’è un accordo del Ppe con le altre forze pro-Ue e deve essere rispettato». Ma i socialisti sono divisi («Fitto non è fascista», dicono in molti) e nel Pd, che ieri ha riunito la delegazione, prevalgono prudenza e tentazione realpolitik, mentre da FdI punzecchiano: «Delle due l’una, o i dem non sono in grado di farsi rispettare dalla loro famiglia politica, oppure non difendono l’interesse italiano». Alla vigilia del grande giorno, insomma, ciascuno tesse la propria tela. Consapevole che a tirare troppo la corda, però, può venir giù la baracca: una resa dei conti nella “maggioranza Ursula”, ad esempio, impensierisce i liberali, come suggerito a sera in ambienti centristi, perché potrebbe stoppare il sì ai loro due nomi, tra cui il macroniano Stéphane Séjourné. Potrebbero essere loro a dare i voti mancanti a Fitto ed evitare lo scontro totale. E qualcuno ipotizza una soluzione di compromesso: che il giudizio sui sei vicepresidenti esecutivi venga espresso a tarda sera al termine di tutte le audizioni, o rinviato al giorno dopo, quando gli europarlamentari dovranno sciogliere la riserva sull’unico aspirante commissario finora rimasto nel limbo, l’ungherese Olivér Várhelyi. L’uomo di Viktor Orbán avrebbe dovuto conoscere il proprio destino ieri, ma il giudizio finale è stato posticipato in modo da avere un’altra pedina nel negoziato. Dopotutto, se cadesse anche solo una testa, la Commissione vedrebbe slittare di un mese almeno — al 1° gennaio — la data di entrata in carica. Uno scenario che, con Donald Trump di ritorno alla Casa Bianca, von der Leyen vuole fare di tutto per scongiurare.
Gabriele Rosana
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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