Spiazzare l’avversario, coglierlo di sorpresa, costringerlo a mosse che non si aspettava. Una vita passata a mercanteggiare ha dato a Donald Trump l’abilità di zigzagare fra ostacoli ritenuti finora inamovibili, il mondo arabo, Israele, Hamas, le burocrazie dell’Onu. Se in politica interna procede spesso come un carro armato, senza deviare di un millimetro dalle proprie posizioni, in politica estera il suo marchio è l’opposto: un eclettismo strategico con cui alleati e avversari faticano a convivere. È questa tattica della discontinuità ad aver favorito il primo passo concreto verso una tregua a Gaza.
LE MOSSE
Lunedì, o al massimo martedì, ci sarà una pausa dei combattimenti e lo scambio di ostaggi e prigionieri, e Trump in persona ha detto che spera di volare in Medio Oriente ed essere presente anche lui.
A dare spessore simbolico al momento c’è il calendario: oggi, venerdì 10 ottobre, verrà annunciato il Nobel per la Pace. E non è un mistero che la fretta con cui Trump ha voluto portare a compimento i negoziati di Sharm El Sheikh era dovuta alla speranza di conquistare il voto della commissione. Ma per la narrazione di Trump i due binari che ha davanti sono ugualmente utili: atterrare in Medio Oriente da premiato o, in assenza di medaglia, presentarsi come il «lavoratore della pace» che preferisce i risultati ai riconoscimenti. Al cuore dell’operazione c’è stato l’uso calcolato dell’imprevedibilità.
Primo snodo: il capovolgimento di rotta su Benjamin Netanyahu. Per mesi Trump aveva concesso a Israele ampia libertà operativa contro Hamas. Il mese scorso, dopo il bombardamento dei leader del movimento mentre si trovavano in Qatar, ha cambiato passo. Ha stretto il premier israeliano, ha preteso una svolta verso l’intesa e, di fatto, ha spento il semaforo verde.
IL PRESSING
Secondo snodo: la pressione pubblica. In un gesto rarissimo nei codici diplomatici, Trump ha imposto a Netanyahu di telefonare al primo ministro del Qatar dallo Studio Ovale per leggergli scuse formali redatte alla Casa Bianca. Mossa quasi umiliante per Gerusalemme, ma con l’obiettivo preciso di ricostruire in fretta la fiducia con il mediatore chiave e segnalare alla regione che gli Stati Uniti puntavano alla firma, non al palcoscenico. E Doha, rimessa al centro dei negoziati con rispetto, ha fatto valere la propria influenza su Hamas.
Terzo snodo: la coesistenza di forza e deferenza. In Medio Oriente, dicono anche parlamentari repubblicani come Lindsey Graham, si risponde al «cavallo forte»: la postura assertiva contro l’Iran ha dato a Trump credibilità. Ma accanto alla forza verso gli ayatollah, è cresciuta la deferenza verso i Paesi arabi alleati. Qui rientra il ruolo del genero Jared Kushner, già architetto degli Accordi di Abramo, e dell’inviato speciale Steve Witkoff, ai quali è stata affidata la tessitura paziente che ha rimesso in asse Qatar, Egitto e Arabia Saudita, e ha trasformato l’energia del «pressing» in un lavoro di partnership capace di convincere Hamas a entrare nel perimetro dell’accordo.
Dentro questa cornice è nato il piano in venti punti, che parte dallo scambio ostaggi e prigionieri e dalla cessazione graduale delle ostilità. Molti invitano a non stappare lo champagne, ma, pur ricordando quante spesso nel passato ci siano stati «cessate il fuoco» che poi non hanno portato a nulla, questa volta prevale un cauto ottimismo, e fonti americane assicurano che Witkoff e Kushner «non lasceranno la regione senza un’intesa completa».
I PROSSIMI PASSI
La messa in scena seguirà la sostanza. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha invitato Trump al Cairo mentre Israele prepara l’accoglienza «a strettissimo giro», se la tregua reggerà. La visita garantirebbe a Trump l’immagine del «garante» e fisserebbe, nella percezione pubblica, un prima e un dopo, dall’unilateralismo muscolare della prima stagione a una diplomazia costruita su scarti improvvisi e su una rete di alleanze regionali. Che, in fondo, è l’essenza dell’eclettismo strategico: alternare pressione e partnership finché l’avversario, e talvolta l’alleato, non trovino più spazio per rinviare.
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