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«Da Torino vogliamo impegni non promesse o passerelle». Chiesta l’audizione dell’ad


«Finalmente». È stato il primo, Carlo Calenda, a chiedere a Stellantis di riferire in Parlamento sulla crisi dell’auto in Italia. E ora il leader di Azione incassa l’audizione dell’ad dell’azienda italo-francese (ma con sede legale in Olanda) Carlos Tavares. «È un primo risultato, frutto di una lunga battaglia su cui abbiamo unito le opposizioni. Il secondo obiettivo, urgente, dev’essere un piano di salvataggio dell’automotive. Il problema non è solo Stellantis, che deve spiegarci cosa vuol fare degli stabilimenti italiani: è tutto il settore che rischia di non reggere».

Lei però aveva chiesto che fosse John Elkann a venire in Parlamento, non l’ad. È comunque una vittoria?

«Una vittoria parziale. Avevo chiesto di Elkann perché è lui che ha preso impegni con l’Italia, è lui che ha ricevuto garanzie pubbliche che gli hanno consentito di pagarsi un dividendo per fare la fusione con i francesi, e che come Exor ha offerto a sua volta garanzie su Magneti Marelli che si sono rivelate false. Ed è sempre Elkann ad aver raccontato agli italiani che non è vero che aveva venduto ai francesi Fca, l’ex gruppo Fiat. Mentre oggi tutti i dati, dai depositi dei brevetti all’utilizzo delle fabbriche dicono che la vera sede di Stellantis, il suo mercato domestico, è la Francia».

Cosa chiederete a Tavares?

«Da Tavares vogliamo un piano industriale, non una passerella mediatica. Vogliamo sapere quali modelli produrrà Stellantis in Italia e dove, fabbrica per fabbrica. Questi signori ci hanno già venduto il Colosseo più di una volta, chiedendo incentivi in cambio di investimenti e poi lamentando che siccome c’è la crisi, gli investimenti saltano. Come la gigafactory di Termoli, prima promessa e poi sospesa. Quella in Francia si farà, per il polo italiano invece sostengono che prima sia necessario un aggiornamento tecnologico. Una presa per i fondelli».

Stellantis abbandona l’Italia?

«È ciò che temo e su cui chiedo risposte. Finora la gestione nei confronti dell’Italia è stata manchevole, così come la gestione stessa dell’azienda. L’automotive vive una crisi generalizzata per molti fattori, dal folle stop ai motori termici nel 2035 imposto dall’Ue al rallentamento dell’export verso Cina e Usa. A Stellantis però la situazione sembra sfuggita di mano. Il che è preoccupante anche per l’indotto italiano che occupa centomila persone, ventimila delle quali rischiano il posto. Se non si estende la cassa integrazione, rischiamo di perderci tutta la componentistica».

Come se ne esce?

«Serve un piano di settore da approvare a Bruxelles in tempi rapidi. E serve un taglio ai costi dell’energia per le fabbriche automobilistiche, che vanno assimiliate alle aziende energivore. La Germania vive problemi simili con Volkswagen. O ci sarà un’azione coordinata a livello europeo, anche su trasformazioni societarie da considerare, o sarà una botta da recessione».

Trasformazioni come la ventilata (seppur ufficialmente smentita) fusione di Stellantis con Renault: c’è il rischio che il baricentro del gruppo si sposti sempre più verso la Francia?

«Non c’è dubbio. Ma il baricentro di Stellantis è già francese. Tutto dipende dagli impegni che verranno presi e dalle garanzie che verranno date alla produzione in Italia. Servono impegni pluriennali su modelli e volumi da cui non ci si possa allontanare. In cambio si deve negoziare con la commissione un pacchetto per sostenere la produzione in Italia».

C’è chi ipotizza che Elkann voglia definitivamente uscire dal settore auto, vendendo o limitando la propria partecipazione in Stellantis.

«Io penso che uscirà dal settore dell’automotive. E in quel momento con ogni probabilità uscirà anche dai giornali che ha acquistato per coprire la fuga dall’Italia».

È auspicabile portare in Italia la produzione dei cinesi di Dongfeng, per invertire la rotta?

«No, perché non porterebbero in Italia né la produzione né un centro di ricerca ma solo l’assemblaggio. E in cambio chiedono un veto di Roma sui dazi verso auto elettriche cinesi, di cui invece abbiamo bisogno».

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