18.05.2025
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Economy

così il Paese si gioca il futuro


Comau è un gioiellino tutto italiano. Un leader mondiale nella produzione di macchinari fortemente automatizzati. Robot, insomma. Una di quelle aziende in grado di proiettare un intero Paese verso il futuro e grazie alle quali l’Italia in questi ultimi anni è riuscita a dominare le classifiche internazionali delle esportazioni. Stellantis, il gruppo italo-francese partecipato dalla famiglia Elkann-Agnelli e dai francesi di Peugeot, in accordo con i patti sottoscritti al momento della fusione tra i due gruppi, ha deciso di cederne la maggioranza.

A comprare è stato il fondo americano One Equity Partner, a ulteriore dimostrazione dell’attivismo dei capitali statunitensi calati in massa a raccogliere le spoglie dell’industria italiana, che nel dopoguerra era stata protagonista di un sorprendente miracolo, in grado di affermare il made in Italy su tutti i mercati mondiali e rendere il Paese uno dei principali produttori manifatturieri al mondo. Kkr, un altro fondo statunitense, ha appena rilevato una quota di Enilive, la società del gigante petrolifero italiano dedicata alla produzione di biometano e che possiede 5 mila stazioni di servizio. Kkr è noto anche per aver comprato un altro gioiello della corona, la rete telefonica di Tim.

I SETTORI

E questo solo per citare le operazioni più recenti. Vendite che si aggiungono alla crisi di imprese che rappresentano interi settori industriali, come l’Ilva di Taranto. La deindustrializzazione, sia chiaro, non è iniziata oggi, ieri o l’altro ieri. È un processo che ha avuto una genesi lenta ma costante. Ma l’impressione, è che ora siamo arrivati alla fase ultima, quella dove tutto accelera e si avvita. Negli anni sessanta l’industria pesava quasi la metà del Pil in Italia. Negli anni 70 eravamo scesi al 40 per cento, negli anni 90 al 30 per cento. Ora siamo sotto il 20 per cento. Lo stesso vale per l’occupazione.

Secondo l’Istat quella del settore manifatturiero oggi è di 3,2 milioni di lavoratori, praticamente lo stesso numero dei dipendenti pubblici. Trenta e quarant’anni fa era il doppio. E’ interessante capire che lavoro fanno oggi gli italiani. Più di un milione sono occupati nel commercio al dettaglio, sono commessi o commesse. Un altro milione nel trasporto e magazzinaggio, un altro milione negli alloggi e nella ristorazione. Dati che rendono bene l’idea di come si stia sempre più passando da un’economia industriale a un’economia basata sui servizi. Che, va detto, sono due tipi di economia profondamente diversi. Il primo ha un elevato grado di innovazione tecnologica e di ricerca. Il secondo no. Un Paese senza industria pesante è un Paese che non guarda al futuro. Un Paese destinato al declino. Anche demografico.

È probabile che ci sia una correlazione tra riduzione dell’occupazione nella grande impresa industriale, in grado di fornire lavori stabili ben retribuiti e welfare ai propri dipendenti, e il calo delle nascite. Ed è un cane che si morde la coda. In un Paese sempre meno popolato, il mercato interno dei consumatori si restringe, e con esso l’interesse delle imprese ad investire. Così come la riduzione del numero dei lavoratori rende più difficile trovare la manodopera necessaria, soprattutto quella più specializzata. I posti disponibili nei servizi, sono meno pagati di quelli delle grandi imprese industriali. Questo spinge i giovani più valenti a lasciare il Paese sempre più presto (ormai già alle scuole superiori), prima per completare gli studi e poi per trovare occupazione ben retribuita fuori dai confini nazionali.

Come si ferma il declino? Gli americani lo hanno capito prima degli europei: reindustrializzando. E su questo non c’è differenza tra Donald Trump e Kamala Harris. Il piano pubblico multimiliardario “Inflaction reduction act”, più conosciuto con l’acronimo Ira, è stato varato da Joe Biden con il solo scopo di riportare la produzione industriale negli Stati Uniti. Sta funzionando talmente bene, che anche le imprese europee, soprattutto quelle tedesche, si stanno sempre più spostando verso gli Statu Uniti.

LE PROSPETTIVE

Chiunque arriverà alla Casa bianca andrà avanti su questa strada. Se sarà Trump, accelererà il processo attraverso i dazi. La risposta europea è stata, per ora, il suicidio industriale attraverso il Green deal che di fatto affida la transizione energetica alla manifattura cinese e, contemporaneamente, alza i costi energetici e produttivi per quella europea. Esattamente l’opposto di quello di cui ci sarebbe bisogno. Le aziende europee, per la stragrande maggioranza, hanno indicato nei prezzi alti dell’energia il più grave ostacolo agli investimenti. Per rilanciare l’industria europea e quella italiana (che paga il costo più alto di tutti), bisogna prima di tutto trovare il modo di ridurre i prezzi energetici.

Ma soprattutto serviranno massicci investimenti pubblici simili a quelli americani. È probabile che la prossima sfida, italiana ma soprattutto europea, sarà quella di trovare il modo di finanziare gli imponenti investimenti necessari ad evitare la deindustrializazione del continente. Saranno probabilmente necessari sussidi all’industria strategica e la promozione di un “buy european”, magari in quei comparti, come la produzione della difesa, alla base della ricerca tecnologica. Ma soprattutto andrà trovata una nuova via ad un’energia che non solo sia pulita, ma soprattutto a basso costo. Altrimenti per le imprese sarà difficile competere. Ma la deindustrializzazione non è un destino ineluttabile.

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