ROMA Obiettivi libici colpiti grazie all’industria di difesa turca ad appena 48 ore dal trilaterale della premier Giorgia Meloni a Istanbul con il presidente Recep Tayyip Erdogan e con il primo ministro della Libia, Abdul Hamidf Mohammed Dbeibah. Con raid contro le città costiere di Sabratha e Zwara, dove muovono i barconi carichi di migranti alla ricerca di una nuova vita. Nel mirino dei droni forniti da Ankara al governo di unità nazionale di Tripoli le fabbriche e gli stabilimenti dediti alla costruzione di barche e barchini ed altro equipaggiamento necessari per il traffico di clandestini. Un segnale chiarissimo che certifica la triangolazione dell’Italia con la Libia di Dbeibah e con il sultano e gran visir turco, per Meloni indispensabile per puntellare i risultati messi a segno nell’ultimo anno nella lotta «al mercimonio di essere umani» nel Mediterraneo. «E ora vi chiedo uno sforzo in più. Lo so che è complesso ma è quel di cui abbiamo bisogno», l’appello della leader italiana diretto ai due, lo sguardo fermo su Dbeibah, perché è a lui che Meloni chiede di fermare l’emorragia di sbarchi certificata dai numeri attenzionati dal Viminale. Per arginarli, Meloni apre un nuovo canale di collaborazione con Ankara, perché è Erdogan l’uomo forte al tavolo, quello che sulla Libia esercita un’influenza che non ha eguali. E che ora più che mai può far la differenza e il gioco di Roma.
PARTENZA IN SALITA
La notizia dello stop della Corte di Giustizia europea agli hotspot in Albania raggiunge la presidente del Consiglio mentre è in procinto di salire sul volo di Stato che la condurrà a Istanbul. È l’ennesima battuta d’arresto al memorandum Roma-Tirana su cui la premier ha puntato moltissimo, ma che sin dal principio ha faticato a decollare. Meloni mastica amaro ma non è rassegnata a darsi per vinta, tutt’altro. Il disco rosso arrivato dal Lussemburgo per lei è solo «un pit stop, in attesa che il nuovo regolamento Ue sblocchi la partita». E intanto la presidente del Consiglio corre ai ripari per fermare altri tessere, evitando che si generi un rischioso effetto domino, potenzialmente rovinoso. Per questo è volata a Istanbul lasciandosi alle spalle la Tunisia appena 24 ore prima. Obiettivo arginare i numeri degli sbarchi di clandestini in arrivo dalla Libia, che, complice la situazione incandescente nel Paese spaccato in due come una mela, hanno ripreso a salire a ritmi vertiginosi, trainando i dati degli arrivi sulle nostre coste. Per ora l’aumento dei flussi lascia dormire al governo sonni tranquilli, attestandosi sotto il 10%. Ma la presidente del Consiglio è convinta che sarebbe un errore sottovalutare i segnali che arrivano da Tripoli restando mani in mano. E magari svegliarsi in agosto con numeri da capogiro, un rischio da cui tenersi alla larga.
Nell’incontro a palazzo Dolmabahçe, presente anche il numero uno dei servizi segreti turchi Ibrahim Kalin, i tre leader hanno discusso «una serie di linee d’azione per combattere le reti criminali internazionali di trafficanti di esseri umani, migliorare la prevenzione dei movimenti irregolari e sostenere la Libia nella gestione della pressione migratoria cui è sottoposta», scrive Palazzo Chigi nella nota diffusa a stretto giro dalla fine del vertice. Il modello di riferimento è quello turco, basato su tre pilastri: scambio di informazioni, collaborazione tra forze di polizia, azioni per prevenire le partenze dei barconi o per intercettarli e stanarli prima che giungano a destinazione. I numeri la dicono lunga e fotografano una strategia che sta dando frutti: a giugno 2025 sulle nostre coste sono arrivati dalla Turchia appena 424 irregolari a fronte dei 908 sbarcati alla stessa data di un anno fa. Un modello da replicare in Libia, contando sull’aiuto e il sostegno di Erdogan. Lo scambio di informazioni e dossier operativi inizierà già a partire da martedì prossimo, spiegano fonti al lavoro sul dossier, confermando la «piena sintonia della cooperazione».
Durante l’incontro, durato circa due ore, è stata affrontata anche la drammatica situazione nella Striscia di Gaza, con Erdogan che è tornato a ribadire come l’unica «soluzione duratura» risieda nella «creazione di uno Stato di Palestina sovrano, indipendente e geograficamente integrato, basato sui confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale».
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