Potrebbe (ancora) scegliere di muoversi come Giuseppe Conte, Giorgia Meloni. Con tutti i distinguo del caso, naturalmente, ma con una missione comune: agire da responsabile “governista” per dribblare l’agguato teso a Ursula von der Leyen dai franchi tiratori bipartisan. E invece tra il risiko delle nomine di oggi e quello del luglio di cinque anni fa, quando la tedesca superò di appena nove voti la soglia della maggioranza assoluta dell’Eurocamera necessaria per diventare presidente della Commissione, potrebbe profilarsi una differenza sostanziale nelle scelte dell’Italia.
Von der Leyen, ipotesi mandato bis: le possibili alleanze e il profilo della leader tedesca, dalla gestione del Covid-19 fino alla guerra in Ucraina
LA SITUAZIONE
Perché a lanciarle il salvagente nello scrutinio segreto del 2019 furono proprio gli eletti del M5S dell’allora premier del governo gialloverde, in soccorso dai banchi dei non iscritti (una sorta di gruppo misto Ue), mentre anche i polacchi del PiS di Mateusz Morawiecki, all’epoca al timone dell’esecutivo di Varsavia, scelsero la linea “governista”, a differenza del resto dei conservatori dell’Ecr, lo stesso gruppo di Meloni e FdI, ai tempi però all’opposizione in Italia. Il copione del 18 luglio (data dell’ipotetico passaggio parlamentare) invece dovrebbe vedere stavolta i 20 eurodeputati del PiS, nel frattempo finiti in minoranza in patria, bocciare il bis. Con la probabilità che i 24 di Fratelli d’Italia facciano lo stesso. A votare sì, invece, i 3 cechi dell’Ods, in cambio di garanzie sul futuro commissario spettante al Paese.
E il no di FdI potrebbe rappresentare uno scoglio di non poco conto, per la presidente uscente. Certo, a un primo sguardo von der Leyen parte da numeri solidi: i popolari del suo Ppe hanno 190 seggi, i socialisti dell’S&D 136, i liberali di Renew Europe 80. Il che, calcolatrice in mano, fa 406, oltre una quarantina in più dei 361 richiesti, su 715, per validare la nomina (che dovrà prima essere formalizzata dai leader dei 27). Ma nel segreto dell’urna non mancheranno franchi tiratori pronti a silurarla, come fecero 5 anni fa i socialisti tedeschi, francesi, belgi, olandesi, austriaci e greci. Von der Leyen deve fare i conti — letteralmente — con alcune defezioni annunciate tra i popolari, come gli 11 tra i Républicains francesi in crisi d’identità e gli sloveni dell’Sds, delegazioni che già alla convention Ppe di marzo le avevano negato l’acclamazione (fu bocciata dal 18% dei votanti). A carte ancora coperte giocano poi molti socialisti, Pd compreso, e qualche liberale, tra cui i tedeschi dell’Fdp.
CUSCINETTO
Per garantirsi un cuscinetto e attutire l’eventuale caduta di consensi, insomma, von der Leyen punta ad aggiungere almeno il 10% di voti in più alle sue non sempre affidabili larghe intese. Il sentiero passa dai 52 eletti dei verdi ansiosi di fare da stampella in nome della continuità sul Green Deal; ma la scorciatoia auspicata sbuca (o sarebbe meglio dire: sbucava) dalle parti dell’Ecr di governo. Motivo per cui sul percorso, considerati anche gli anatemi a sinistra, ora c’è un (grosso) ostacolo in più.
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