Ballano circa 500 milioni di gettito nel negoziato fra il Tesoro e le banche rappresentate da Abi sulle Dta, le imposte differite attive pagate dagli istituti per le perdite su crediti e avviamenti. Questa è la vera misura al centro della trattativa perchè, quella sulle stock option, avrebbe una base imponibile minima e proprio per questo, viene considerata una mossa “politica”, segnaletica nel senso di voler “colpire i ricchi”, come vengono percepiti i top manager. Invece il prelievo sulle Deferred tax asset è la vera misura a carico delle banche, perché esse devono recuperare negli anni questa tassa pagata impropriamente su un credito che, per le condizioni economiche difficoltose del debitore, non torna a casa. Si lavora su misure di «natura temporanea e predeterminata, con effetti esclusivamente finanziari, salvaguardando il patrimonio e i bilanci delle banche e senza effetti retroattivi, per non penalizzare la competitività delle banche operanti in Italia rispetto alle banche europee», secondo la posizione decisa all’unanimità dall’ultimo esecutivo ABI. Di altre misure nemmeno a parlarne, come di tasse di cui si sente ipotizza nelle ultime ore. I calcoli in corso fra i tecnici del Ministero e dellebanche sono molto complicati, avvengono su basi matematiche e il confronto è iniziato in salita per i diversi punti di partenza. I tecnici del Tesoro costruiscono le elaborazioni su indicatori antichi di qualche anno, prima di quelli in cui gli istituti hanno iniziato a avere più profitti per i rialzi dei tassi della Bce. L’Abi invece ha dalle banche una contabilità aggiornata, anche molto complessa. Le percentuali di imposte differite variano tra i diversi istituti che da giovedì scorso, quando c’è stato il vertice al Ministero tra le parti, hanno dato vita a consultazioni continue in video call con Palazzo Altieri per calibrare numeri e percentuali: sono coinvolti uomini dei crediti, ristrutturati e sofferenze, oltre esperti rischi e della finanza. Sembra che tra le prime sei banche ci siano scarti poi più si indietreggia ipiù si allargano i delta nel sistema, anche se in 5-6 casi, gli stessi istituti non avrebbero un quadro definito.
Da una ricostruzione della Fabi sui bilanci al 2023, emerge il totale delle cinque grandi si attesta a 30,5 miliardi di cui UniCredit 10,7 miliardi, Intesa Sanpaolo 12,6 miliardi, Bpm 3,8 miliardi, Bper 1,8 miliardi, Mps 1,4 miliardi.
Se questi sono numeri certi, in questo spazio si dovranno decidere le percentuali per fissare l’occorrente. Ecco perché la situazione è fluida, stanno valutando i possibili impatti del congelamento della quota di utilizzo delle imposte differite attive (DTA) per l’anno 2025. Questi crediti sono maturati dalle banche a fronte del pagamento anticipato principalmente di imposte su svalutazione crediti e avviamenti, sono smaltibili secondo un piano temporale predefinito. Per il 2025 la quota di crediti utilizzabili relative a imposte differite connesse con svalutazioni crediti è l’11% del totale iniziale di questa tipologia di Dta, quelle relative ad avviamenti sono il 13%. Gli ultimi dati per quantificare l’impatto del congelamento sono desumibili dalle relazioni tecniche che hanno accompagnato precedenti congelamenti sempre di queste poste e dalle singole dichiarazioni fiscali che sono nella disponibilità del dipartimento delle finanze del MEF. Sulla base di questi dati sembrerebbe emergere un impatto che oscilla tra 1,3 e 1,8 miliardi. Tuttavia lato Ministero dell’economia e delle finanza si stanno effettuando valutazioni a livello di dichiarazioni fiscali per valutare gli specifici andamenti e anche per tener conto delle più recenti dichiarazioni fiscali, le ultime valutazioni si basano infatti su dati 2021 e 2022.
Tornando alle stock options, che sono strumenti premianti per i capi azienda, essi prevedono l’assegnazione al management, il più delle volte gratuitamente, di diritti ad acquistare ad una data futura, solitamente non meno di tre anni fino a 4-5 anni, un’azione ad un prezzo fissato oggi. In questo modo il manager avrebbe tutto l’interesse a fare in modo che l’azione cresca di valore perché il suo guadagno è direttamente proporzionale a quanto varrà l’azione al momento dell’esercizio. Poniamo che il piano sia lanciato oggi e che il prezzo dall’azione sottostante sia pari a 10 euro. Immaginiamo che dopo tre anni l’azione valga 15. In questo caso il manager potrà comprare a 10 e rivendere a 15 ottenendo un capital gain di 5 euro per ogni opzione assegnata.
Chiarito il funzionamento della stock option però è necessario evidenziare che questo strumento è in Italia oggi molto poco diffuso e che quindi se l’intervento fosse limitato solo allo strumento “opzionario” in senso stretto la base imponibile sarebbe davvero irrisoria.
Per comprendere la materia c’è lo «Studio sui compensi dei board delle società del Ftse Mib» elaborato, nell’ambito dell’Osservatorio su Executive Compensation e Corporate Governance della Luiss Business School, dalla Cutillo & Partners: si ottiene un quadro completo per una ricognizione sul grado di diffusione di questo strumento tra le grandi aziende italiane quotate sulla nostra borsa. Ebbene «circa l’80% dei piani analizzati utilizza azioni con vincolo di performance share (performance share/unit), cioè di azioni in funzione dei risultati, il 15% cash, mentre sempre più residuale appare l’utilizzo delle opzioni in quanto strumenti giudicati troppo diluitivi per gli azionisti e molto volatili in termini di pay out per il management». Dice Guido Cutillo, Direttore dell’Osservatorio: «E’ una tendenza che osserviamo in Italia da diversi anni da quando sostanzialmente si sono eliminati i benefici fiscali di cui godevano le stock option nei confronti delle azioni». Il valore medio degli incentivi percepiti dai top manager delle grandi quotate si attesta su 1,7 milioni e sulla retribuzione sempre media, dei grandi capi azienda italiani, risulta che il 38% è formato dal sistema premiante a lungo termine, mentre la componente fissa si aggira sul 37%. Ma c’è il convincimento che la misura sulle stock options ha una valenza politica: l’ammontare complessivo è di circa 60 milioni, una somma irrisoria che invece rafforza il sospetto di agire come mossa segnaletica di “colpire i ricchi”.
Le azioni risultano molto utilizzate anche perchè nei sistemi di incentivazione delle banche sono sostanzialmente «imposte» dalla normativa bancaria Bce che prevede che i bonus non possano più essere pagati cash dopo un anno di performance ma debbano, per una parte sostanziale, essere differiti nel tempo in azioni. Tale prassi, nata nelle banche, si sta diffondendo anche agli altri settori in base alle richieste provenienti dagli investitori istituzionali esteri e ai proxi advisor.
Nel report della Luiss sono riportate le 32 società italiane quotate che emettono sistemi premianti: si va da Intesa Sp a Unicredit, da Enel a Eni, da Leonardo a Pirelli, da Recordati a Tim.
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