«Attacco deliberato». A Bruxelles come a Kiev non hanno dubbi sulle reali intenzioni del Cremlino dopo il raid con missili e droni che, nella notte tra mercoledì e giovedì, ha colpito la capitale ucraina causando almeno 18 vittime civili e provocando seri danni agli edifici che ospitano la sede diplomatica dell’Unione europea e il British Council. «La guerra ha toccato l’Ue. E nessuno mi convincerà che questa non sia stata una precisa intenzione di Vladimir Putin», ha scritto sul suo profilo LinkedIn l’ambasciatrice Ue a Kiev, Katarina Mathernová. Il personale della missione blu-stellata è illeso, «sta bene fisicamente», ma «psicologicamente è tutt’altra storia», ha aggiunto parlando con il Financial Times. «Mentre il mondo cerca una via per la pace, la Russia risponde con i missili. L’attacco su Kiev è la prova di una scelta deliberata di escalation e di scherno degli sforzi di pace» da parte del Cremlino, le ha fatto eco l’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas, che ha convocato per chiedere spiegazioni l’incaricato d’affari russo di stanza a Bruxelles: «Nessuna sede diplomatica dovrebbe essere un bersaglio».
La presidente della Commissione Ursula von der Leyen, subito dopo la conta dei danni, ha sentito al telefono sia il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sia l’americano Donald Trump per ribadire la necessità che «Putin si sieda al tavolo negoziale», e ha annunciato un tour delle capitali del fianco orientale dell’Ue. Secondo il segretario generale della Nato, Mark Rutte, l’offensiva dimostra «che non possiamo essere ingenui nei confronti della Russia e che dobbiamo garantire all’Ucraina tutto ciò di cui ha bisogno per difendersi e garantire una pace duratura». Garanzie di sicurezza, certo, per trasformare il Paese in un «porcospino d’acciaio» indigesto all’invasore, secondo l’immagine che von der Leyen ripete come un mantra. Ma anche continuare la pressione economica sulla Russia che Bruxelles ha avviato ormai tre anni e mezzo fa, con l’inizio dell’invasione su larga scala. Che l’Ue sia al lavoro per aumentare la pressione su Mosca lo ha detto la stessa von der Leyen, annunciando l’imminente presentazione del 19° pacchetto di sanzioni e passi avanti «sull’impiego dei beni russi congelati per contribuire alla difesa e alla ricostruzione dell’Ucraina». Una formula volutamente vaga e che rimanda alle discussioni al via oggi a Copenaghen, dove i ministri degli Esteri dell’Ue avranno un nuovo confronto informale. Finora sono stati utilizzati a sostegno di Kiev solo gli extraprofitti generati da quegli asset, mentre non è stata disposta la confisca diretta, opzione ritenuta giuridicamente troppo rischiosa. Ma tra i governi fautori della linea dura c’è chi insiste che è tempo di far cadere anche questo tabù.
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Intanto a Roma Giorgia Meloni riunisce i suoi per fare il punto. È il primo vertice dopo il blitz che l’ha condotta a Washington con gli altri leader europei, testardamente al fianco di Zelensky. Da allora sono trascorsi ben 10 giorni ma di pace non c’è traccia, anzi. Sull’Ucraina continuano a piovere droni, missili e bombe, le persone a morire, bambini compresi. «Gli intensi attacchi di questa notte su Kiev dimostrano chi sta dalla parte della pace e chi non ha intenzione di credere nel percorso negoziale», accusa su X la presidente del Consiglio, tornando a puntare il dito contro Putin e i suoi mille bluff.
LA CHIAVE DI VOLTA
Con Tajani, Salvini, Crosetto e Fazzolari la premier fa il punto sulle «robuste e credibili garanzie di sicurezza per l’Ucraina, da elaborare insieme agli Stati Uniti e ai partner europei e occidentali», «chiave di volta» per arrivare alla pace, le definisce Palazzo Chigi in una nota diffusa a fine vertice. Meloni, durante la riunione, torna a indicare ai suoi la rotta, ovvero il lavoro dell’Italia sul meccanismo simil articolo 5 della Nato e la convinzione, granitica, di non inviare soldati al fronte, sfilandosi dall’iniziativa che muove la coalizione dei volenterosi capitana da Macron e Starmer.
La premier torna a ribadirlo anche per fermare la slavina partita dopo che Tajani ha accennato alla possibilità per l’Italia di inviare uomini a sminare l’Ucraina. Da lì un susseguirsi di ipotesi e suggestioni: quanti uomini? Dove? Equivalgono a dei boots on the ground? Niente affatto. Non è prevista «alcuna partecipazione italiana a un’eventuale forza multinazionale da impiegare sul territorio ucraino, mentre sono al vaglio ipotesi di monitoraggio e formazione al di fuori dei confini ucraini solo una volta raggiunta la cessazione delle ostilità», mette in chiaro Palazzo Chigi. Vale a dire che, semmai si arriverà alla pace, «l’Italia potrebbe offrire supporto per la bonifica solo marina e in acque internazionali — spiega una fonte interessata al dossier — mentre il monitoraggio potrebbe avvenire attraverso aerei radar e satelliti per controllare, da remoto, il mantenimento del cessate il fuoco». Ma di inviare italiani al fronte «non se ne parla, in qualsiasi ruolo o formato», ha ribadito la premier ai suoi, invitandoli a soppesare ogni parola «in uno snodo delicato come questo».
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