21.07.2025
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Politics

assoluzioni impugnabili solo per i reati più gravi. Nordio studia la riforma


«Rimedieremo». Non è una promessa dal sen fuggita, quella arrivata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio subito dopo la notizia del ricorso dei pm di Palermo contro l’assoluzione di Matteo Salvini. «Nei Paesi civili, le sentenze di assoluzione non si impugnano», è la linea del Guardasigilli. Che presto potrebbe tradursi in un nuovo intervento per rivedere questo aspetto del processo penale, almeno per quanto riguarda la maggior parte dei reati. E impedire che chi è già stato giudicato innocente una volta non si veda poi condannato in secondo grado.

Il dossier è allo studio di via Arenula. E venerdì è stato al centro di una riunione della Lega: al tavolo, gli esponenti del Carroccio con maggior voce in capitolo sul tema Giustizia. Ma anche dentro Forza Italia e Fratelli d’Italia è diffusa la convinzione che serva una riforma, per completare il lavoro cominciato un anno fa. Già il ddl Nordio infatti, approvato nel 2024, aveva messo una serie di paletti alla possibilità del pm di chiedere la revisione di una sentenza di non colpevolezza, escludendola per i reati minori (quelli cosiddetti “a citazione diretta”), che prevedono cioè una pena al di sotto dei quattro anni.

Il primo tentativo

Sia il ministro che molti dentro Forza Italia, da sempre, sono convinti che questo “scudo” contro la possibilità di impugnare le sentenze di assoluzione andrebbe esteso a tutti i reati. Con una motivazione, per così dire, logica: come si può condannare qualcuno «oltre ogni ragionevole dubbio», quando c’è già un giudice di primo grado che quei dubbi li ha messi nero su bianco in un verdetto?

E infatti il centrodestra ci aveva già provato. Era il 2006, un’era politica fa, quando il governo Berlusconi partorì la legge Pecorella: un addio, tout court, alla possibilità per il pm di impugnare le assoluzioni. Una norma che l’opposizione dell’epoca bollò come “ad personam”. E che la Consulta di fatto cancellò un anno dopo. Con la motivazione che pm e imputato, essendo due parti in causa sullo stesso piano, devono poter disporre delle stesse “armi” processuali.

E così, ecco il problema. Come elaborare una nuova riforma che vada nella direzione indicata da Nordio senza vedersela bocciare di nuovo dalla Corte costituzionale? Chi ha cominciato a studiare il dossier, nella Lega ma anche a via della Scrofa, ipotizza una via d’uscita. Questa: allargare il perimetro dei reati per i quali già oggi è previsto lo “scudo” anti-appello. Tenendo in piedi la possibilità di impugnare un proscioglimento solo per i reati più gravi, o quelli di maggiore allarme sociale. Terrorismo e criminalità organizzata, certo. Ma forse anche i reati violenti, e quelli relativi ad ambiti particolari come il codice rosso. Ipotesi su cui è cominciato il ragionamento, appunto. Una bozza di lavoro ancora non c’è, almeno a via Arenula. Ma potrebbe vedere la luce a breve. Specie se da Palazzo Chigi arriverà un imput in questo senso. Del resto è stata proprio Giorgia Meloni, due giorni fa, a mettere in chiaro che sulla giustizia è ora di «eliminare le storture». Mentre per quanto riguarda il Carroccio, una proposta di legge del partito potrebbe essere presentata a stretto giro. E chissà che non serva da base per cominciare il confronto più nel dettaglio.

Un’altra ipotesi di correttivo accreditata, seppur più light, è quella che prevede una sorta di punizione contro gli appelli “temerari”: se dopo un’assoluzione il pm fa appello e l’imputato è di nuovo assolto, questo finisce per pesare nel fascicolo di valutazione del magistrato stesso. Un’idea lanciata tempo fa con un emendamento del forzista Enrico Costa, che poi non si è tradotta in legge. Ma che è tornata a girare nei ragionamenti di queste ore.

Lo scudo

Modifiche che, va però precisato, non riguarderebbero nello specifico il caso di Salvini (che ieri ha incassato la solidarietà dei colleghi sovranisti Marine Le Pen e Geert Wilders): i pm di Palermo, infatti, hanno fatto ricorso non in appello ma direttamente in Cassazione, una possibilità prevista dall’articolo 111 della Costituzione. E nessuno, almeno dentro FI e FdI, crede che «realisticamente» si possa cambiare la Carta su questo punto (non fosse altro che per mancanza di tempo, visto che servirebbe una legge costituzionale il cui iter è ben più tortuoso rispetto a quello ordinario).

Al ministero della Giustizia però, sullo sfondo, emerge pure una seconda ipotesi più “estrema”. Quella secondo cui i tempi sarebbero maturi per provare di nuovo a reintrodurre uno scudo totale. Una legge Pecorella 2.0, insomma. Del resto, per quanto possa apparire improbabile, non è escluso che la Consulta (il cui verdetto due decenni fa fu criticato da molti giuristi) chiamata a esprimersi su un nuovo provvedimento non possa decidere diversamente rispetto al 2007. A sostegno di questa tesi, qualcuno ricorda le conclusioni della commissione Lattanzi, il team di giuristi che nel 2021, sotto la guardasigilli Marta Cartabia, elaborò alcune proposte di riforma della Giustizia. Tra cui, all’articolo 7, proprio la riforma delle impugnazioni, compresa (lettera C) «l’inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero», motivata con un richiamo ai principi espressi dalla Cedu, la convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quattro anni fa quella relazione fu riposta nel cassetto. Chissà che a via Arenula a qualcuno non venga in mente di rispolverarla.

© RIPRODUZIONE RISERVATA


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