L’eruzione dell’Hayli Gubbi, in Etiopia, dopo oltre 12 mila anni di inattività, ha destato lo stupore in molti, offrendo un’importante occasione per capire meglio come funzionano i sistemi vulcanici e quanto la loro apparente quiete possa essere ingannevole. Un evento che riporta l’attenzione sulla natura dinamica e imprevedibile dei sistemi magmatici, capaci di riattivarsi anche dopo lunghissime pause.
Grazie all’analisi del Prof. Gino Mirocle Crisci, Professore Emerito di Geologia e già Rettore dell’Università della Calabria, emerge un quadro chiaro: i vulcani non seguono schemi rigidi.
In Italia, l’attenzione resta puntata sui Campi Flegrei, dove i segnali considerati precursori di un’eruzione in altri vulcani — variazioni nei gas, deformazioni del suolo, piccoli terremoti — non valgono necessariamente per l’area vulcanica napoletana. Qui il sollevamento del terreno sembra infatti legato al riscaldamento delle acque sotterranee, rendendo più complesso distinguere un vero processo eruttivo da fenomeni idrotermali. Diverso il caso di Etna e Vesuvio, dove tali indicatori risultano più leggibili e affidabili.
L’etichetta di “vulcano dormiente” appare dunque fuorviante. Anche un sistema silenzioso può nascondere movimenti profondi impossibili da percepire in superficie. La sicurezza non sta nell’apparenza, ma nella sorveglianza continua e nella capacità di monitorare e interpretare correttamente i segnali della Terra.
L’eruzione del vulcano etiope dopo 12.000 anni ci deve sorprendere?
«Non molto. La “sorpresa” deriva solo dal fatto che il vulcano non fosse monitorato: la zona è remota e desertica, e quindi eventuali segnali precedenti non sono stati registrati. Si tratta di una zona praticamente disabitata, del tutto priva di insediamenti e per questo poco monitorata».
È strano che un vulcano erutti dopo migliaia di anni di inattività?
«No. Esistono numerosi vulcani che hanno eruttato dopo lunghi periodi di quiescenza. Il fatto di essere “rimasti in silenzio” a lungo permette loro di accumulare molta energia, rendendo l’eruzione più esplosiva».
Si parla spesso di “vulcani dormienti” o “morti”. È una narrazione fuorviante?
«Bisogna stare attenti a fare una distinzione. Un vulcano “dormiente” non è un vulcano spento: può essere quiescente, cioè attivo sotto la superficie ma privo di manifestazioni evidenti. In questo caso può comunque emettere gas in quantità minime, generare piccoli terremoti, e accumulare lentamente magma ed energia. Vulcani come l’Albano, pur silenziosi, sono solo quiescenti. Solo un vulcano spento è realmente “morto”: non mostra più alcun segnale, nessun gas, nessuna deformazione, nessuna sismicità».
Quindi un vulcano “dormiente” non significa affatto che il pericolo sia passato.
«Esatto. Un vulcano può restare “in ricarica” per secoli o millenni e poi eruttare improvvisamente, come accadde al Vesuvio nel 79 d.C., quando i Romani non avevano neppure idea che fosse un vulcano. Per questo motivo un vulcano silenzioso non è sempre un vulcano sicuro».
Ci sono vulcani simili a quello etiope in Italia?
«Il più simile è l’Etna, che generalmente produce colate di lava, ma nel passato ha dato anche eruzioni esplosive. Lo stesso tipo di comportamento può verificarsi nei vulcani del rift africano».
Perché l’eruzione allora è stata esplosiva invece che effusiva?
«Perché il vulcano era rimasto in quiete per molto tempo. Un lungo periodo di riposo permette di accumulare pressione e gas. Quando la pressione supera la resistenza delle rocce, si verifica un’esplosione. È possibile che le prossime attività (qualora ve ne fossero) siano invece colate di lava».
Quali vulcani italiani destano particolare attenzione?
«Il più monitorato è il sistema dei Campi Flegrei, un supervulcano che presenta: sciami di terremoti, sollevamento del suolo, emissioni di gas. Non è detto che stia per eruttare, ma sono fenomeni che richiedono osservazione costante. L’ipotesi più accreditata è che il calore proveniente dal basso riscaldi l’acqua sotterranea, facendola espandere e provocando piccoli terremoti. È un comportamento tipico delle aree vulcaniche attive, non una prova certa di eruzione imminente».
Nel Mediterraneo ci sono vulcani sottomarini pericolosi?
«Nel Tirreno meridionale si sta formando una sorta di “nuovo oceano”, un bacino in espansione che, in scala molto più ridotta, ricorda ciò che è avvenuto per l’Atlantico o per il Pacifico. Quando il fondo marino si apre e si assottiglia, lungo la frattura si sviluppa una catena di vulcani: nel Tirreno ce ne sono più di una decina. Si tratta dello stesso sistema che ha generato le isole Eolie. Il più noto è il Marsili, un vulcano enorme, lungo 70 km e alto circa 3000 m».
Le eruzioni dei vulcani sottomarini possono generare tsunami?
«L’eruzione in sé di solito non genera tsunami. Il pericolo può derivare da frane sottomarine: i materiali eruttivi si accumulano sui fianchi del vulcano, un terremoto può farli “scivolare”, la frana sposta grandi masse d’acqua e genera lo tsunami. Nel Tirreno, negli ultimi 2000 anni, se ne sono registrati quattro».
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