A Milano, dove i grattacieli di vetro di Porta Nuova riflettono una città che corre, basta svoltare l’angolo per ritrovarsi davanti a una fila silenziosa che attende un pasto caldo. È la fila della mensa di Sant’Antonio, una delle venti realtà francescane sostenute da Operazione Pane, che ogni giorno restituisce un’immagine autentica e spesso scomoda delle nuove povertà italiane. Il rapporto 2025 dell’Antoniano parla di una crescita dei lavoratori poveri, degli italiani in difficoltà, dei giovani che non riescono più a sostenere il costo della vita . Ma quei numeri diventano voce quando incontri persone come Massimo, 52 anni, un volto segnato da una stanchezza composta, e una storia che si specchia nelle contraddizioni della città. ”Da tre anni sto vivendo un momento molto difficile. Ho perso quasi tutto — dice, con un filo di voce mentre racconta la sua storia a La Presse — È esplosa una mia patologia, una dipendenza: la ludopatia. Mi ha portato via tutto”. Quando parla del giorno in cui ha bussato alla porta del Centro Sant’Antonio, Massimo non nasconde che sia stato un gesto difficile ammettere di aver bisogno. “A luglio ho trovato il coraggio di tornare a bussare alla porta del centro di ascolto. Conoscevo questo posto, ci avevo lavorato come volontario per dieci anni, dal 1993. Credevano fossi passato a salutare. Invece no, ero venuto a dire che stavo male”. Il paradosso di chi ha passato anni a distribuire aiuto e si ritrova, anni dopo, dall’altra parte del banco è un nodo che a Massimo ancora stringe la gola. “Ho sempre avuto un buon lavoro, soddisfazioni professionali. Ma prendere coscienza di essere una persona malata, di dover chiedere aiuto, non è facile”. A Milano, però, il dolore individuale è sempre immerso nella geografia mutevole della città. “Quando facevo il volontario io, le povertà erano diverse. Oggi in mensa trovi di tutto: persone come me, ragazzi stranieri, gente che lavora ma non arriva a fine mese, famiglie intere. Le povertà sono molteplici”. Massimo guarda verso il portone da cui continuano a entrare uomini e donne, molti con le mani in tasca e lo sguardo basso. “Siamo a due passi da Gae Aulenti, simbolo della modernità. Poi fai venti metri e trovi una vietta con una chiesa e cento persone in fila che aspettano un pasto. È Milano: bella, stimolante, ma anche molto difficile”. La sua voce non contiene rancore, piuttosto un realismo gentile, lo stesso che si ritrova nei volontari che lo hanno riconosciuto non come l’ex collega di un tempo, ma come un uomo in caduta libera che ha scelto di farsi vedere. “Ho trovato aiuto, ma soprattutto un po’ di fiducia in me stesso. Non mi sento di dare consigli a nessuno, ma posso dire una cosa: chiedere aiuto si può. L’aiuto, in una città così complessa, si trova”. Nel grande racconto di Operazione Pane, dove i dati mostrano l’aumento dei working poor, dei giovani in difficoltà e degli italiani che scivolano verso la fragilità, la storia di Massimo non è un’eccezione, ma la conferma che la povertà oggi ha volti nuovi, capaci di mescolarsi perfettamente nella folla che attraversa la città senza essere riconosciuti. È forse questo il dettaglio più spiazzante: scoprire che la povertà non vive ai margini, ma spesso a pochi metri dal centro, invisibile finché non si sceglie di ascoltarla. Massimo lo sa bene. E mentre saluta, sembra dire che la vera modernità non è solo nei palazzi che svettano in alto, ma nei gesti minuscoli che tengono in piedi chi, un giorno, ha perso l’equilibrio. (LaPresse)



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