Dalle ombre nere alle ombre rosse. Elly Schlein l’ha accusata di una deriva autocratica, ad Amsterdam, di fronte ai socialisti europei. Non le è andata giù. Giorgia Meloni sceglie le comunicazioni al Parlamento alla vigilia del Consiglio europeo per assestare un gancio di ritorno. Indossa i guantoni a Montecitorio, nel pomeriggio, dopo una mattinata in sordina al Senato. Si scaglia contro una «sinistra fondamentalista», che all’estero «getta ombre e fango sull’Italia, sulla qualità della sua democrazia, sulla maggioranza dei cittadini che scelgono». È il momento clou di una giornata sull’ottovolante per il governo, al suo terzo compleanno. Candeline e fuochi d’artificio.
IL MATCH
«Le vostre sono dichiarazioni che l’Italia rischia di pagare e io penso che questo non sia il modo corretto di rappresentare la propria nazione» tuona la premier alla Camera, completo bianco e un quadernino di appunti stretto in mano. Si toglie un sassolino, anzi un macigno dopo l’altro la presidente del Consiglio in uno scontro frontale con gli avversari in aula. Torna sulle parole del segretario Cgil Maurizio Landini, quel “cortigiana” di Trump su cui si è aperto un pandemonio, rivendica le sue stoccate alle opposizioni «più estremiste di Hamas».
«È chiaro che non ho accusato l’opposizione di essere terrorista o peggiore di Hamas. Ho semplicemente ricordato che vi siete rifiutati, in Parlamento, di sostenere il piano di pace per Gaza che era stato sottoscritto persino da Hamas — incalza la leader di Fratelli d’Italia — e che quindi la vostra posizione è stata, nei fatti, più fondamentalista di quella di Hamas». Je ne regrette rien, cantava Edith Piaf. «Ora, è possibile che a sinistra non si conosca o non si comprenda bene il significato della parola cortigiana, ma spero almeno si conosca quello della parola fondamentalista». L’emiciclo, sonnecchiante, diventa una bolgia. Uno ad uno i leader dell’opposizione salgono sul ring. Parte Giuseppe Conte. Allunga alla premier un opuscolo blu sui banchi del governo. «È il libro dei record, in tre anni ha alzato solo le tasse» la incalza dal suo scranno il leader dei Cinque Stelle sciorinando cifre. «Ha aumentato le accise sul gasolio, sui pannolini. Si vanta della Manovra ma contiene solo briciole, ci sono sei milioni di precari. Presidente, ha le travecole?». Ed ecco Schlein. Entra all’ultimo minuto, in ritardo, e il meloniano in chief Giovanni Donzelli la canzona: «Per fortuna non è un’assemblea del Pd, non c’è il cartello “Pausa teatrale”». Lei studia e ristudia il discorso fra le pacche di incoraggiamento dei suoi vicini di seggio, Chiara Braga e Federico Fornaro. «Presidente, so che mi aspettava qui, ma non decide lei cosa dice l’opposizione» affonda la segretaria in apertura. Poi si cimenta a rovinare i festeggiamenti del governo, racchiusi in 68 pagine di opuscolo confezionate per l’occasione. Parla di una finanziaria «austera, rinunciataria», di una politica estera «delegata a Trump». Invita la rivale ad abbandonare «i monologhi social e TeleMeloni, fatevi aiutare perché è evidente che non avete una visione per il Paese». Meloni ascolta, sorride, rotea gli occhi. Parla fitto con il titolare dei conti, Giancarlo Giorgetti, che intanto si cimenta in una lezione sulla Manovra scarabocchiando un foglio. Qui e lì la temperatura sale. Il caso Ranucci, l’attentato al giornalista di Report, offre un’occasione al Senato. Meloni ribadisce la solidarietà, poi punta la segretaria Pd. «Non ricordo mobilitazioni quando il direttore del giornale Alessandro Sallusti è stato arrestato in redazione per scontare una condanna ai domiciliari o quando Tommaso Cerno e Daniele Capezzone hanno ricevuto minacce di morte». E ancora: «Mi rifiuto di prendere lezioni dai Cinque Stelle, che stilavano liste di proscrizione dei giornalisti».
I DISTINGUO LEGHISTI
Il resto del discorso, snocciolato fra le due camere, ruota intorno alla politica estera. Sostegno fermo a Zelensky e al «congelamento del fronte» per iniziare a trattare, «sarebbe un passo avanti». E via libera alle sanzioni a Mosca e a Putin che con il lancio di droni sui cieli europei ha varcato il Rubicone: «Non l’Europa, né la Nato, l’intero Occidente è sotto attacco». Meloni applaude Trump il mediatore, pur riconoscendo la fragilità della tregua a Gaza. Rispedisce al mittente l’accusa di subalternità al Tycoon, «difendevo i valori dell’Occidente anche quando c’era Biden». Ne ha per l’Europa del Green deal, delle consorterie franco-tedesche che la convincono a difendere il voto all’unanimità.
Sulla strada per l’aeroporto è il momento dei bilanci. Meloni sorride per le opposizioni spaccate sul voto alle risoluzioni, con un clamoroso via libera a quella di maggioranza da parte di Azione. Ma prende atto dei continui puntelli leghisti. «Non sono d’accordo, non togliamo fondi agli ospedali per spendere in armi» rimprovera al Senato Claudio Borghi. A Montecitorio è il leghista Candiani a incalzarla sulle spese militari, sull’«assuefazione alla guerra». Fuoco amico? «Macché — si schermisce in fretta lui in Transatlantico mostrando una chat whatsapp con la leader, «vedete, ci siamo anche scritti! È tutto ok».
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