Sarà una fumata nera, l’ennesima. Con i tre nodi da sbrogliare — Veneto, Puglia e Campania — destinati a restare sul tavolo, lungi dall’esser sciolti. Il vertice di questo pomeriggio a Palazzo Chigi non svelerà, salvo sorprese, i tre front runner del centrodestra alle regionali ormai alle porte. Il perché è presto detto: i tempi non sono maturi, un accordo a portata non c’è e Giorgia Meloni ha bisogno di un supplemento di riflessione. Che ha deciso di prendersi, continuando a tenere le carte coperte persino con i suoi fedelissimi. E così oggi a Palazzo — filtra dalla sede del governo — è solo di autonomia che si parlerà. Con il ministro Calderoli a fare il punto con la presidente del Consiglio, Salvini, Tajani e Lupi sulle pre-intese da chiudere per il trasferimento delle materie cosiddette non Lep. Una bandierina da piantare in vista dell’appuntamento di Pontida, scrollandosi di dosso la ruggine per lo stop arrivato dalla Consulta e che ha precipitato l’eterno sogno della Lega in una palude. Ma è difficile credere che sulle regionali sarà scena muta. Fosse altro che a Salvini farebbe un gran comodo arrivare sul pratone di Pontida con un nome per il Veneto in quota Lega. Resta infatti Palazzo Balbi il dossier più spinoso, con il braccio di ferro in corso tra Lega e Fdi sul nome destinato a succedere a Luca Zaia. Un’eredità di peso — 14 anni di buon governo, premiato con un plebiscito di oltre il 70% di voti alle ultime elezioni — in una chiamata alle urne che vede per il centrodestra la strada in discesa. Che sia Fdi o la Lega a spuntarla, la vittoria è infatti considerata già in tasca. Ecco perché cedere Venezia è questione dolorosissima, sia che il passo indietro lo faccia Meloni sia che lo compia Salvini. Con tutti i contraccolpi del caso, per l’uno e per l’altra.
L’INCROCIO CON LA LOMBARDIA
Lasciare il Veneto nelle mani della Lega per Meloni vorrebbe dire scontentare il territorio, con il partito che scalpita per passare all’incasso, con la prima Regione del Nord capitanata da Fdi: una mission impossible solo a immaginarla qualche anno fa. Ma sottrarre la partita alla Lega vorrebbe dire mandare Salvini in affanno, con l’incognita dei due anni che il governo ha davanti e che la premier vuole percorrere fino all’ultimo miglio. «Vale la pena mettere a rischio la tenuta dell’esecutivo per intestarsi la guida di una Regione?», il ragionamento che un fedelissimo ha condiviso con la presidente del Consiglio. Che però, si diceva, quando di mezzo c’è il futuro di Palazzo Balbi resta imperscrutabile anche per i suoi uomini più fidati. Se lascerà andare il Veneto, Meloni per forza di cose dovrà portare a casa l’opa sulla Lombardia. Per Salvini un boccone amarissimo da mandar giù — di gran lunga più indigesto del Veneto — e che oggi, considerando che al voto per il Pirellone si andrà nel 2027, sarebbe di fatto scritto su sabbia. Perché in politica due anni equivalgono a un’era geologica. «Sempre che al voto in Lombardia — spiega un ministro di peso — si vada davvero nel 2027. Basterebbe anticipare le urne al 2026, chiedendo a Fontana un passo indietro, per chiuderla bene e subito».
Ma veniamo a Salvini, con la mina del Veneto pronta ad esplodere in una fase delicatissima per il partito. A terremotare via Bellerio è ancora una volta l’attivismo del generale Roberto Vannacci, con i big del partito sul piede di guerra, argomento di discussione persino nel faccia a faccia tra il leader della Lega e Zaia di giovedì scorso. Tanto da spingere Salvini a spegnere le polemiche a mezzo stampa, con tanto di nota ad hoc diramata di buon mattino: «Basta polemiche, Vannacci è un valore aggiunto, stiamo facendo e faremo un ottimo lavoro insieme». Ma sono in molti, nelle file del Carroccio, a pensare che il generale lavori per sé più che per il partito, con tanto di associazioni a suo nome, in barba alla Lega. E con i suoi uomini da piazzare nelle liste elettorali delle regioni al voto. Le liste, appunto. In Veneto resta aperta anche l’incognita della lista Zaia, con Fdi e Fi fermamente contrarie. E la promessa di Salvini al Doge: «mi darò da fare per portarla a casa». Difficile riesca davvero se dovesse ottenere il disco verde degli alleati alla candidatura di Alberto Stefani. Troppa grazia, sia Salvini che Zaia — che potrebbe arrivare a Roma proprio in questi giorni — in fondo ne sono consapevoli.
I CIVICI IN PUGLIA E CAMPANIA
Veneto croce e delizia, ma ci sono altre due partite aperte per il centrodestra, seppur siano entrambe molto più croce che delizia. Restano infatti da decidere i nomi da schierare in Puglia e Campania, dove la sfida è aperta con il recordman di preferenze Antonio Decaro e con il grillino della prima ora, tornato in pista, Roberto Fico. Due corse considerate perse in partenza. Anche per questo aumentano le possibilità che la premier e gli alleati puntino le fiches su due civici, nomi più facili da sacrificare. Risparmiando il forzista Mauro D’Attis in Puglia e il viceministro degli Esteri in quota Fdi Edmondo Cirielli in Campania. «Vediamo, il pendolo oscilla…», dicono da via della Scrofa. A muoverlo è Giorgia Meloni, e solo lei sa quando e su chi andrà fermato.
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