Un pompiere col fischietto da arbitro. In campo Fabio Maresca si fa vedere e sentire come se ci fosse un’emergenza da risolvere, pronto a tutto. Ha 44 anni, moglie e quattro figli, una carica che in certe partire non passa inosservata. È stato il primo ad assegnare un calcio di rigore in Serie A col Var, in Juve-Cagliari (3-0) a favore dei sardi il 19 agosto 2017, ed è internazionale dal 2020.
Maresca, innanzitutto come sta?
«Abbastanza bene, grazie. Sono nella fase riabilitativa dopo un intervento chirurgico. Torno in autunno».
Novità tecniche la gestione della disciplina e dei cartellini, il doppio tocco su calcio di rigore, il calcio d’angolo per la squadra avversaria se il portiere trattiene il pallone per più di 8 secondi: serve altro per limitare le perdite di tempo?
«Più di tutto è importante la proattività di noi arbitri e la collaborazione di giocatori e panchine per avere partite più godibili e un maggiore tempo effettivo di gioco».
Contribuisce a rasserenare poter comunicare allo stadio le decisioni dopo le revisioni Var?
«È stato sperimentato al Mondiale per club e le prime giornate di campionato ci diranno che tipo di impatto avrà nei nostri stadi. L’augurio è che tutto il processo sia fruibile al meglio per chi sta sugli spalti e chi a casa, dove può vedere più volte. Al Mondiale le spiegazioni erano tutte in inglese, da noi saranno in italiano e nel mio caso l’unico timore è che si senta troppo l’accento napoletano».
Giro di vite sulle proteste: prevede più disciplina o più cartellini?
«Speriamo più disciplina, ma dopo qualche cartellino in più».
Vi accusano di non avere uniformità di giudizio: come se ne esce?
«Su episodi veramente al limite non se ne uscirà mai. Non c’è un episodio uguale all’altro, fosse anche per una sfumatura. L’obiettivo è diventare più uniformi possibili».
Come assorbe le polemiche?
«Spesso non si possono evitare, succede sul luogo di lavoro, in famiglia, ovunque e anche di rimbalzo. Fanno parte del gioco e siamo programmati per non soffrirne più di tanto, fermo restando che siamo i primi dispiaciuti per i nostri errori».
I guardalinee si sentono depotenziati?
«Sbagliano se così fosse. Sono diversi anni che la commissione lavora per far crescere il livello tecnico e possono collaborare con l’arbitro, al di là del fuorigioco. Sono altri arbitri a disposizione».
È giusto parlare subito dopo le gare, come invocano in tanti, o può diventare un boomerang?
«Ho avuto l’esperienza di intervenire poche ore dopo una gara in diretta alla Domenica Sportiva: avevo arbitrato Verona-Sassuolo alle 12.30 (3 marzo 2024). Idea interessante, ma potrebbe anche diventare un boomerang. In quella occasione c’è stato un contesto ideale, la fortuna ha voluto che in campo le cose siano andate bene. Faccio fatica a pensare che un arbitro possa parlare dopo un big match in situazioni grigie o poco chiare».
Non c’è più Mourinho, ma ci sono allenatori che vi fanno pressione a bordo campo con gli atteggiamenti?
«Ogni tecnico vive la partita a modo suo. Ci accomuna il senso di responsabilità, loro in panchina e l’arbitro in campo. L’ammonizione e soprattutto l’espulsione mi pesano perché so che lavoro incredibile ci sia dietro una gara: per un allenatore non poterla vivere fino in fondo è una sconfitta per tutti».
I giocatori sono più o meno educati rispetto a qualche anno fa?
«Sono diversi, le generazioni cambiano. Le esperienze arbitrali ti mettono davanti a calciatori prima più grandi, poi coetanei e che poi potrebbero essere tuoi figli. L’evoluzione dell’arbitro va di pari passo. Questa è una generazione più smart e spontanea: a volte si fa più fatica a rispettare i ruoli e ciò accade pure nella vita di ogni giorno, penso agli insegnanti. Per questo ritengo che l’arbitro debba far capire nel modo giusto che è lì con un ruolo differente. Va bene il tu e conoscersi sempre meglio, però ci sono la distanza e il rispetto dei ruoli».
È vera la storia che non vuole arbitrare il Napoli?
«Mai chiesto, sono a disposizione».
Dicono di lei che in campo ha una fortissima personalità, mette tanta fermezza ed è fin troppo severo.
«Vero, tendenzialmente è un complimento. Quanto all’essere troppo severo, spero di aver superato alcuni istinti di gioventù».
Cosa ha rappresentato il caso Maignan, quando il 20 gennaio 2024 a Udine fermò la partita per razzismo?
«Per la squadra arbitrale è importante capire quanto sta succedendo, non è facile nel frastuono e per le dinamiche tecniche. Deve venire fuori la persona. Quello che feci fu semplicemente mettere il portiere a proprio agio. Nella situazione si è capito che quel tipo di fermezza degli arbitri, con la compattezza delle squadre, può essere una grande arma contro il razzismo».
Con le aggressioni ai giovani arbitri, come si fa a convincere un ragazzo ad avvicinarsi alla vostra professione?
«Difficile. Il problema, al di là del reclutamento, è l’alta percentuale di abbandono in presenza di certi episodi. I genitori scoraggiano. Dobbiamo lavorarci, non è mai troppo quello che si fa per tutelare chi si approccia al mondo arbitrale. Bisogna dare atto a governo, Aia e Figc della nuova legge che deve fare da deterrente».
A distanza di anni c’è un errore che non dimentica?
«Sono troppi (ride, ndc). Ma grossi mai. Poi col Var si correggono e comunque non sono grossi».
Una partita che le manca da dirigere?
«Ho avuto la fortuna di esserci in quasi tutti i big match e al derby d’Italia. Mi manca solo quello di Roma».
È venuta prima la passione da arbitro o da vigile del fuoco?
«Da calciatore e poi da arbitro».
Da chi ha appreso di più e ha sempre stimato?
«Sono tanti. Voglio ricordare Stefano Farina, il dirigente che mi ha permesso di arrivare dove sono».
In una partita di campionato Kuwait, a fine settembre 2024, un giocatore rivelò che lei l’aveva minacciato: cosa le ha lasciato quella disavventura?
«Che un arbitro non può sbagliare neanche una parola. Lo sapevo, me ne sono reso conto ancora di più».
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