«In Italia occorre innanzitutto ridurre quella che gli inglesi chiamano la “motherhood penalty”, sarebbe a dire l’insieme di penalizzazioni o discriminazioni, non solo sul piano retributivo, con cui devono fare i conti le madri lavoratrici». Così la sociologa Chiara Saraceno, professoressa emerita dell’Università di Torino e honorary fellow presso il Collegio Carlo Alberto di Torino, presidente dal 1998-2001 della Commissione di indagine sulla povertà e l’esclusione sociale e a capo, in tempi più recenti, nel biennio 2021-2022, del comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza. «È necessario un piano casa per i giovani – aggiunge la Saraceno – affinché il gap tra figli desiderati e figli nati si riduca». La sociologa rivolge poi lo sguardo alle politiche messe in campo in Francia e Svezia per riportare in alto il tasso di fecondità: «Serve investire di più sulla conciliazione vita-lavoro».
Ha sentito cosa ha detto Andrea Bassanini, senior economist dell’Ocse, in audizione davanti alla Commissione parlamentare sulla transizione demografica?
«L’Ocse sostiene che la risalita del tasso di natalità a 2,1 figli per donna provocherebbe nei prossimi 20 anni un calo del Pil pro-capite superiore di 7 punti percentuali rispetto allo scenario base. Mi lasci dire che trovo un po’ curioso questo modo di affrontare la questione. Fare figli dovrebbe essere una spinta a cercare lavoro e a ottenere salari più alti. Il problema risiede nel sostegno all’occupazione femminile, ancora troppo debole nel nostro Paese».
In Italia il tasso di occupazione femminile si attestava a maggio al 54 per cento, un dato in crescita dello 0,7 per cento su maggio del 2024, ma che continua a evidenziare un divario importante rispetto al tasso di occupazione maschile e alla media europea.
«In Italia le madri lavoratrici scontano una minore probabilità di essere assunte e promosse e percepiscono salari più bassi rispetto agli uomini e alle colleghe senza figli. Gli inglesi in questo caso parlano di “motherhood penalty”. Bisogna intervenire sulle penalizzazioni che subiscono le madri lavoratrici sul piano retributivo e non solo. Le donne con figli vanno messe in condizione di produrre e contribuire alla crescita del Pil. Il consiglio dell’Ocse qual è? Quello di non fare più figli perché fino al compimento dei 25 anni rappresentano una spesa? Senza nascite il Pil crollerebbe comunque».
Serve quindi una strategia integrata per l’occupazione di donne, anziani e immigrati?
«L’immigrazione non può risolvere da sola il problema delle nascite. Prima di tutto perché in Italia l’immigrazione è spesso poco qualificata, quindi non adatta a una certa domanda di lavoro. Inoltre il tasso di fecondità degli immigrati che arrivano in Italia tende ad abbassarsi. Noi abbiamo poche persone in età feconda. Se seguissimo il ragionamento dell’Ocse tra 20 anni ne avremmo ancora di meno».
E allora come se ne esce?
«Quello della famiglia numerosa non è più un modello culturalmente diffuso. Ma un piano casa rivolto ai giovani, e ispirato a quello della Francia, aiuterebbe a mio avviso a ridurre il gap tra figli desiderati e figli nati, gap che in Italia è particolarmente ampio».
Ci sono altri esempi all’estero a cui potremmo ispirarci?
«La Svezia, che un tempo aveva un tasso di fecondità più basso di quello italiano, ha investito molto sulla conciliazione vita-lavoro. Ma Stoccolma ha puntato anche sui congedi parentali, rendendoli più generosi, garantendo nel contempo un accesso esteso e a basso costo ai servizi per l’infanzia».
Intanto i nostri giovani continuano a emigrare.
«La priorità non è fermare la fuga dei giovani all’estero, ma rendere l’Italia più attrattiva per i giovani degli altri Paesi, in modo che i ragazzi di Germania e Francia prendano in considerazione l’idea di trasferirsi da noi a lavorare».
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