In Valle Camonica la chiamano ciuenlai, forse per l’idea esotica che trasmette la forma del frutto, o milione-milium, per la sua elevata produttività.
Nelle zone montane del Mesoamerica, da dove gli emigrati italiani di ritorno l’avrebbero importata oltre cinquant’anni fa, è caigua. Dalle Ande alle Alpi. Conosciuta in America anche come pianta officinale, in Italia, coltivata solo in Lombardia, la pianta ha un frutto che viene consumato come alimento crudo o cotto o conservato sottaceto o sottolio. «Una pianta che cresce dai 300 ai mille e passa metri di quota, resistente alle intemperie e in grado di produrre da agosto a novembre», sottolinea Luca Giupponi, ricercatore a capo del progetto Caigua dell’Università degli studi di Milano presso il polo Unimont, l’Università della montagna di Edolo. Una coltura che quest’anno il Masaf ha iscritto all’Anagrafe nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, riconoscimento che ne faciliterà la tutela e la valorizzazione, ma non solo. «Tra gli obiettivi – spiega Giupponi – la possibilità di innescare filiere economiche attraverso i preparati sia agroalimentari sia erboristiche. Si tratta di valutare se è possibile creare reddito dalla caigua per le piccole comunità di montagna». Bio e green economy.
LA SPECIFICITÀ
Il riconoscimento riguarda la caigua e altre due risorse vegetali delle montagne della Lombardia. Il mais delle Fiorine, conservato in alcuni piccoli campi a Clusone, Villa d’Ogna e Oltressenda Alta, che può essere coltivato dalla pianura alla media montagna e ha evidenziato «un alto contenuto in amido – spiegano le schede del Crea – rispetto ad altre cultivar locali tradizionali lombarde, nonché un alto contenuto di zinco e basso contenuto di fosforo». E il grano siberiano valtellinese poi, che «si presta particolarmente alla coltivazione in ambiente montano, anche a quote superiori ai mille metri, grazie alla sua rusticità, al ciclo vegetativo breve e al fatto che è in grado di tollerare molto meglio il freddo rispetto al grano saraceno comune – si spiega – e ad altre varietà di grano siberiano». Antiche colture si fanno strada attraversando il cambiamento climatico, ora anche con una carta d’identità. Tre risorse che Unimont, in collaborazione con agricoltori, associazioni, enti di ricerca e di governance studia da alcuni anni nell’ambito di progetti proprio come quello sulla caigua. Nel 2023 la semina a Pian Camuno, in provincia di Brescia, presso l’azienda agricola Il Castagneto, partner del progetto. Forma «simile a quella di un cetriolo rampicante, esuberante, con tantissime foglie e frutti. Un ecotipo locale: la pianta americana fa tante foglie e pochi frutti, la nostra fa frutti più piccoli ma tantissimi», spiega Giupponi. Pianta oggetto di ricerca soprattutto per le sue proprietà terapeutiche. «Nella tradizione sudamericana è usata per contrastare principalmente malattie dell’apparato cardiocircolatorio, ipertensione, aterosclerosi. Abbassa il livello di colesterolo e gli zuccheri nel sangue», aggiunge il ricercatore. Il progetto punta a stabilire se le popolazioni di caigua lombarde, adattate alle condizioni ambientali delle aree montane della Valle Camonica, presentano caratteristiche agronomiche, fitochimiche-nutrizionali e medicinali simili a quelle del Mesoamerica. Un primo progetto, legato al Piano di sviluppo rurale di Regione Lombardia, si chiude ora. Il frutto ha dimostrato basso contenuto di zuccheri, lipidi e proteine. È più ricco di minerali rispetto alle cultivar sudamericane. «Sul nostro versante abbiamo lavorato all’aspetto genetico e fitochimico – aggiunge Giupponi – L’Università di Siena ha invece valutato la bioattività degli estratti della pianta, in particolare per verificare l’attività sulle cellule del tessuto vascolare stressate da alte concentrazioni di zuccheri. I dati sono abbastanza promettenti». Spiega Alex Alberto, assegnista di ricerca all’Università di Milano-Unimont: «Abbiamo analizzato anche le foglie, per valorizzarle come sottoprodotto, più verde, con più polifenoli. Vogliamo vedere cosa cambia tra prodotto crudo e sbollentato e verificare che conservi il suo potere antinfiammatorio». A Edolo intanto è nato il Food Lab, tra ricerca scientifica e applicazioni pratiche, grazie a una convenzione tra l’Università degli studi di Milano, con il polo Unimont, e l’Iiss Meneghini. «Lavorando insieme possiamo valorizzare la ricca biodiversità delle montagne», la riflessione di Anna Giorgi, responsabile di Unimont.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Leave feedback about this