Il botta e risposta tra governo e tribunali sui centri migranti in Albania è a un punto di svolta. O meglio, la questione su chi debba essere a stabilire quali siano i Paesi sicuri o meno per il rimpatrio delle persone migranti si è di nuovo aperta, sollevata dal Tribunale di Bologna che ha rinviato alla Corte di Giustizia europea il decreto con cui l’esecutivo, qualche giorno fa, ha dato forza di legge alla sua lista. Primato normativo europeo o nazionale? Questo l’interrogativo a cui ora i giudici dell’Ue devono rispondere.
Gli obiettivi del rinvio del Tribunale di Bologna
Tutto parte dal ricorso contro la commissione territoriale di un cittadino del Bangladesh per il riconoscimento della protezione, non accordatagli proprio perché proveniente da un paese «sicuro» per l’esecutivo. I giudici del Tribunale di Bologna, col loro rinvio pregiudiziale alla Corte Giustizia dell’Ue, contestano il principio (sostenuto invece dal governo) che considera «sicuri» i paesi in cui la generalità degli abitanti, o comunque la maggioranza, viva in condizioni di sicurezza. Secondo tale visione, fanno notare i togati, anche la Germania nazista sarebbe stata considerata sicura per molti tedeschi, con buona pace delle minoranze perseguitate.
Per i giudici europei non si può quindi parlare di paese sicuro se in alcune porzioni del suo territorio esistono situazioni di pericolo o se alcune minoranze, appunto, vengono perseguitate.
Fatte queste premesse, l’obiettivo del rinvio alla Corte di Giustizia Ue lo ha spiegato il presidente del Tribunale emiliano Pasquale Liccardo, che ha chiarito che «con la richiesta di procedura d’urgenza» si punta all’«uniforme e stabile interpretazione del diritto dell’Unione da parte degli organi giurisdizionali e di tutte le articolazioni dello Stato, tenute all’osservanza del diritto dell’Unione europea secondo l’interpretazione della Corte di giustizia europea».
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Che in sintesi significa voler comprendere se «anche in presenza di una lista di paesi sicuri adottata con legge ordinaria, o con decreto legge come nel caso in esame» sussiste l’obbligo per il giudice nazionale, anche in nome della sentenza della Corte del Lussemburgo del 4 ottobre scorso, quella che ha costretto i 16 migranti al rientro in Italia, «di procedere alla disapplicazione dell’inserimento del paese di origine nella lista dei paesi sicuri, ogni qual volta anche una categoria delimitata di persone venga perseguitata o minacciata gravemente».
Gli scenari possibili
Uno degli scenari possibili, insomma, è che la Corte di Giustizia Ue possa trovarsi d’accordo con i giudici di Bologna e riconoscere che i criteri del governo contrastino con il diritto europeo. La conseguenza, logica, sarebbe quindi la disapplicazione del decreto. Ma il ministro della Giustizia Carlo Nordio è convinto che questo non succederà: «Se l’elenco dei paesi sicuri è inserito in una legge, il giudice non può disapplicarla». Punto di vista ribadito pure dal titolare del Viminale Matteo Piantedosi, che ha sottolineato che la lista dei paesi sicuri è diventata «norma primaria» e che questo «consente ai giudici di avere un parametro rispetto a un’intepretazione ondivaga».
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Si resta quindi in attesa della sentenza dei magistrati europei, al cui rispetto saranno vincolati i 27 Paesi membri. I giudici, come spiegato, potrebbero stabilire che le norme Ue prevalgono sul decreto dell’esecutivo, che verrebbe così disapplicato dai tribunali nazionali. Tale atteso pronunciamento della Corte del Lussemburgo potrebbe rivelarsi decisivo, mettere in crisi l’intero sistema Albania e, con esso, i piani della premier Meloni per la gestione dell’immigrazione.
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