Un’incognita europea. La sensazione che un pezzo della magistratura italiana sia pronto a montare le barricate. E la tentazione che monta a Roma: riscrivere gli accordi per aggirare l’impasse.
Sarà una corsa a ostacoli l’attuazione del patto fra Italia e Albania sulla detenzione extra-territoriale dei migranti. Dal governo traspare soddisfazione per la prima nave della Marina partita ieri alla volta del porto di Schengjin con un gruppo di migranti a bordo. Avanti tutta, il refrain nel giorno d’esordio, arrivato con cinque mesi di ritardo sulla tabella di marcia.
Del resto il patto italo-albanese ha fatto scuola in Europa e man mano si allunga la lista dei Paesi membri Ue, ma c’è anche il Regno Unito, che vorrebbero replicarlo. Fin qui il bicchiere mezzo pieno. Una sentenza della Corte di Giustizia europea però rischia di inceppare il meccanismo e lasciare semi-vuoti i centri che costeranno allo Stato italiano più di 600 milioni di euro nei prossimi cinque anni.
L’INTOPPO EUROPEO
Il 4 ottobre, sollecitata dal Tribunale di Brno, la Corte di Lussemburgo è intervenuta su un punto chiave alla base del patto con Edi Rama. Che prevede di sottoporre nei centri albanesi alle “procedure accelerate di frontiera” introdotte con il decreto Cutro solo i migranti provenienti da Paesi sicuri. Ebbene quella lista, aggiornata di continuo dalla Farnesina, rischia ora di restringersi e ridursi all’osso per l’intervento delle toghe europee. Le quali a inizio mese hanno messo in chiaro: non è possibile, nel rispetto dei Trattati, considerare un Paese «parzialmente» sicuro a seconda della regione da cui proviene il migrante.
Se i giudici italiani si adegueranno a questa interpretazione il rischio di una cascata di rigetti delle espulsioni decise dalla Questura di Roma per i migranti in Albania si farà concreto. Bangladesh, Egitto, Camerun, Costa d’Avorio. E ancora Ghana, Colombia, perfino la Tunisia di Kais Saied con cui l’Italia ha un patto per i rimpatri. Nessuno di questi sarebbe più considerato dai giudici un Paese «sicuro», ergo i migranti che da qui riescono ad arrivare nella zona Sar italiana non potrebbero essere trasferiti nei centri allestiti nel Paese est-europeo.
Da mesi il governo si interroga su questo cavillo dell’accordo annunciato un anno fa. E non si esclude di trattare con Rama una sua revisione. Ad esempio eliminando il vincolo delle “procedure di frontiera” e trasformando le strutture albanesi in veri e propri Cpr (Centri per la permanenza e il rimpatrio) così da allargare la platea di chi vi sarebbe trasferito. Operazione politica e diplomatica assai complessa, certo. Perché Rama a suo tempo ha sposato il patto con la premier Giorgia Meloni sulla base di chiare premesse: le strutture nel suo Paese, extra-territoriali e dunque pienamente soggette alla giurisdizione italiana, sarebbero servite solo al riconoscimento dei migranti e all’espletamento delle procedure di frontiera.
I TRIBUNALI
Il tempo dirà se una revisione sarà necessaria e soprattutto possibile. Intanto il Viminale allaccia le cinture e si prepara all’ostruzionismo dei giudici in casa. Di una categoria in particolare: le detestate “sezioni immigrazione” dei tribunali da cui proveniva Iolanda Apostolico, la giudice di Catania che ha sfidato il governo disapplicando il decreto Cutro. Della sentenza della Corte di Giustizia Ue a inizio mese preoccupa poi un altro passaggio. Quello che chiede ai giudici nazionali di verificare d’ufficio di volta in volta la compatibilità delle decisioni del Viminale sulla protezione internazionale con le norme Ue sulla designazione dei Paesi sicuri. Dunque massima discrezionalità. Un altro ostacolo può infine arrivare dalla Cassazione. Il 4 dicembre la Corte di Piazza Cavour, sollecitata dal Tribunale di Roma, deciderà se il giudice, in sede di esame di un provvedimento di rigetto della protezione internazionale del Viminale, dovrà ritenersi vincolato alla lista dei “Paesi sicuri” stilata dal governo o valutare in autonomia «l’effettiva sicurezza» del Paese da cui arriva il migrante. Sarà per tutti una lunga traversata.
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