22.05.2025
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Politics

«Rai plurale, TeleMeloni non esiste»


Non c’è nulla di più noioso, di anti-storico e di assurdo — nell’epoca della liquidità, dei social, della post-ideologia e dell’impossibile controllo sulle opinioni e prima ancora sull’indirizzo delle opinioni da una parte o dall’altra — dei discorsi sull’egemonia culturale. E allora applausi, e gli applausi ci sono stati alla festa del Foglio, per il nuovo ad della Rai, Giampaolo Rossi, che fa piazza pulita di questo bla bla.

Osserva il numero uno di Viale Mazzini: «Il servizio pubblico è stato in tutti questi anni il grande luogo di costruzione dell’immaginario nazionale, mai di parte. Perché una nazione è una pluralità di racconti e una identità che raccoglie tante identità. Ci sono stati momenti in cui la Rai è riuscita ad essere questo racconto nazionale. Altri momenti invece è stata incastrata in dinamiche ideologiche e politiche». Ora basta? Ma certo basta! «Qualche mondo culturale — incalza Rossi — ha interpretato la Rai come una proprietà privata in passato, un mondo culturale che oggi è molto arrabbiato nel vedere che la Rai si è liberata». Il riferimento è chiaramente all’egemonia, ma soprattutto all’occupazione del potere, che in passato la sinistra ha esercitato nel mondo radiotelevisivo. L’ad insiste e rilancia: «Con l’arrivo di Giorgia Meloni, si è parlato molto del tema dell’egemonia culturale che è paradossalmente un concetto estraneo alla cultura di destra. L’unica egemonia che si può applicare ad una azienda come la Rai è l’egemonia della libertà. Non esiste una televisione di destra o di sinistra. Può esistere una televisione buona o cattiva, fatta bene o fatta male. Ma pensare di condizionare il racconto per immagini attraverso delle chiavi di lettura ideologiche distrugge un’azienda».

QUALITÀ CONTRO IDEOLOGIA
E così, TeleMeloni («Un’etichetta irreale che nasce da esigenze di marketing di gruppi editoriali» evidentemente nemici di chi sta al governo nazionale) è smentita alla radice. Chi conosce Rossi sa bene che questa sua convinzione post-ideologica gli appartiene davvero. Se non altro per un fatto di mercato: nella concorrenza delle idee, delle rappresentazioni, degli immaginari e soprattutto dei prodotti culturali e audiovisivi non c’è né destra né sinistra, c’è soltanto la qualità (la mia contro la tua in un contesto non solo italiano ma europeo e internazionale ed è questo il terreno largo di gioco in cui la nuova Rai intende cimentarsi) e la capacita creativa e manageriale. In hoc signo vinces. Il che farebbe pensare che anche per la direzione del Tg3 non ci saranno scelte ideologiche ma chissà. Rossi assicura che quella poltrona «verrà assegnata sulla base di scelte editoriali».

La retorica dei fascisti in marcia su Viale Mazzini meriterebbe un sorriso, ma Rossi — professionista Rai sempre trasversalmente apprezzato e che ha lavorato per l’azienda a prescindere dalle stagioni politiche — la smonta concettualmente e allarga il discorso rivolgendosi a chiunque oggi crede o soprattutto finge propagandisticamente di credere a un possibile ritorno del Ventennio: «Benedetto Croce diceva che non potevamo non dirci cristiani e lo diceva da laico. Io credo che nel 2024 non possiamo non dirci antifascisti». Parole semplici, e verrebbe da dire ovvie. Tranne alle orecchie di chi insiste sulla deriva anti-democratica che non parrebbe esistere nei fatti nell’Italia d’oggi, come è o dovrebbe essere chiaro anche a chi, dentro e fuori dalla Rai, si dice di sinistra. «Vengo da una storia profondamente antifascista, repubblicana e rinascimentale — racconta Rossi — e sono cresciuto con il mito di Mazzini e di Garibaldi». L’idea della libertà e del superamento delle categorie del ‘900 trova in Rossi un convinto assertore. «Considero stucchevole che ancora oggi si parli di neofascisti e postfascisti, neocomunisti e postcomunisti». Bene, bravo, bis? Non esageriamo. Ma anche basta con la retropia italiota.

 

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