Sei anni. Quando i pm di Palermo formulano la richiesta di condanna di Matteo Salvini il team social della presidente del Consiglio è pronto a scattare. «È incredibile che un Ministro della Repubblica Italiana rischi sei anni di carcere per aver svolto il proprio lavoro difendendo i confini della Nazione, così come richiesto dal mandato ricevuto dai cittadini». Giorgia Meloni esprime solidarietà piena, granitica, immediata al vicepremier nel mirino dei giudici per il caso Open Arms. Fin troppo immediata, a detta di Elly Schlein: «Un intervento molto inopportuno — l’affondo della segretaria Pd — il potere esecutivo e quello giudiziario siano autonomi».
Ci va giù pesante la premier e leader di Fratelli d’Italia. Convinta che «trasformare in crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale» sia «un precedente gravissimo». Esprime vicinanza a Salvini anche in privato, al telefono. Non è un fulmine a ciel sereno, la requisitoria contro il “Capitano” leghista dall’aula bunker dell’Ucciardone. È un momento atteso da anni e la condanna richiesta, sei anni su un massimo di 15 per sequestro di persona aggravato, era «prevedibile» spiegano dalla Difesa del vicepremier. Eppure non è sereno il cielo su Palazzo Chigi, nel giorno in cui i pm disegnano un mirino su uno dei leader della coalizione di governo, avviano un insidioso countdown giudiziario.
Nel calendario della premier questa data era segnata in rosso da tempo. Fin da quando ha varcato il portone del Quirinale per giurare, due anni fa. Giorni di maretta, quelli delle trattative per approntare la squadra di governo. Gli aut-aut di Berlusconi. E il tiro alla fune di Salvini, deciso a ripartire dove aveva lasciato: al Viminale, il ministero «anti-sbarchi» da cui ha scalato i sondaggi fino a sfiorare il 34 per cento alle Europee al grido “porti chiusi”. Meloni non cede. Spinge a miti consigli il leader leghista, che farà spazio al fidatissimo Matteo Piantedosi. Il perché è già chiaro allora. L’indagine sul caso Open Arms cammina già da mesi e su un terreno incerto. Ora il processo.
Che tra la premier e il vice leghista non sia sempre tutto rose e fiori non è un mistero, altroché. Ma di fronte alla «persecuzione giudiziaria» non c’è divergenza che tenga. Salvini va difeso, è la linea di Palazzo Chigi. Di qui il fiume di solidarietà dal governo. Si muove subito il leader di Forza Italia Antonio Tajani. «Ha fatto il suo dovere di ministro dell’Interno per difendere la legalità». Ecco Maurizio Lupi, capo di Noi Moderati: «Un precedente gravissimo e pericolosissimo che riguarda tutti». Carlo Nordio, il Guardasigilli: «Piena ed affettuosa solidarietà al collega Salvini».
La premier, si diceva, è adombrata. C’entra il tempismo delle notizie giudiziarie che corrono sull’asse Palermo-Roma. Da un anno monta la convinzione nel suo cerchio magico che un pezzo di magistratura lavori attivamente per dare una spallata al governo. È un crescendo. Prima il complotto giudiziario denunciato da Guido Crosetto. Poi le inchieste che colpiscono i fedelissimi, da Montaruli a Delmastro. E ancora la tortuosissima vicenda processuale di Daniela Santanchè, il timore (senza riscontri) di un’inchiesta su Arianna Meloni, il caso Sangiuliano che ora atterrerà in tribunale. Più di tutto lo scandalo dei dossieraggi all’attenzione della procura di Perugia. Un vero pallino fisso di Meloni nelle ultime settimane. E questo per il sospetto di nuove e scomode rivelazioni che potrebbero fuoriuscire dalla mole di dati trafugati dalla Direzione nazionale antimafia.
TIRO A RIALZO
Cresce la sensazione di un tiro a rialzo contro il governo dei “patrioti”. Dai sottosegretari ai ministri, dai ministri (forse) alla famiglia. Ora un vicepremier, a capo di un partito che è colonna della coalizione. No Salvini, no party. Il 18 ottobre il leghista radunerà i parlamentari davanti al tribunale di Palermo per un “flash mob” anti-pm. Come il Cavaliere. Meglio allacciare le cinture per una nuova stagione di tensioni con le toghe. Meloni le ha allacciate da un pezzo.
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