Per qualche ora si lascerà che la polvere si posi, poi, da lunedì, il filo diretto tra rue de Berlaymont e palazzo Chigi tornerà a tendersi come ai bei tempi. Come ha già promesso alla premier prima che a Bruxelles calasse il sipario, Ursula von der Leyen tornerà a confrontarsi con Giorgia Meloni, consapevole che all’appuntamento del 18 luglio (quando con ogni probabilità l’Europarlamento dovrà esprimersi sul suo secondo mandato) non può presentarsi con una maggioranza risicata.
L’INDICAZIONE
In questo senso i 24 seggi di FdI fanno gola e l’astensione di Meloni sulla sua indicazione da parte del Consiglio Ue ha lasciato la porta socchiusa. Per spalancarla però, servirà — stavolta sì — «merito e metodo». Il sostegno «non dichiarato ma reale» ci sarà solo nel caso in cui venga messa sul tavolo una poltrona importante per l’Italia. Ovvero un ruolo da commissario Ue che risponda a due requisiti: potere finanziario e regolatorio. Che abbia non solo forti influenze su interessi economici e una disponibilità di risorse adeguata ma contenga pure competenze di esclusivo appannaggio europeo. Sia cioè una materia su cui i Ventisette abbiano ceduto la propria potestà. Un identikit preciso — tracciato da chi vicino alla premier si occupa di strategie Ue — che risponde soprattutto al portafogli per la Concorrenza, il Commercio, il Pnrr o, qualora venisse infine realmente scorporata, per la Difesa. Tant’è che c’è chi racconta di una lunga passeggiata in solitaria a Borgo Egnazia tra la premier e Ursula, in cui sarebbe stato promesso a Meloni un pacchetto comprensivo di Bilancio, Coesione e Pnrr.
Posizioni a cui ambiscono in molti tra i Ventisette (da qui la necessità di tenere segrete le trattative, o von der Leyen verrebbe impallinata dai franchi tiratori all’Europarlamento) e su cui attorno alla premier sono convinti l’Italia vanti una sorta di diritto. Il terzo Paese per abitanti dell’Ue non può ottenere molto di meno. Per di più mentre il primo è già stato remunerato proprio con la presidenza assegnata a Ursula, e il secondo è alle prese con un’incertezza elettorale tale da spingere Emmanuel Macron ad un salto in avanti, riproponendo prima delle elezioni legislative il nome di Thierry Breton come Commissario plenipotenziario. Una mossa, quest’ultima, che ha scatenato l’ira di Marine Le Pen, convinta che l’indicazione spetti al vincitore della prossima tornata, e pure di chi a Roma tifa per lei.
IL PUZZLE
Un puzzle sicuramente complesso per Ursula, da incardinare attorno alla necessità di tenere l’Italia «in buona considerazione». Un assunto attorno a cui ruotano non solo le recriminazioni di giovedì notte di Meloni, ma pure la seconda fase della trattativa originata proprio dall’astensione. Questa è infatti la grande convinzione di una premier per niente pentita della linea seguita a Bruxelles. Il duro confronto «non ha indebolito» l’Italia al tavolo negoziale. Anzi. Se è vero che l’ipotesi di strappare anche una vicepresidenza esecutiva sarebbe già stata bocciata, da un eventuale sostegno alle tre nomine di ieri Meloni non aveva nulla di buono da guadagnare.
L’astensione ottenuta aggirando l’ostacolo del “consenso”, le ha permesso invece di non spaccare il fronte popolari-liberali-socialisti tutelando la candidatura di von der Leyen nella convinzione che un eventuale secondo nome sarebbe un salto nel buio totale, non rovinare il suo rapporto Ursula e non dividere neppure i suoi alleati di destra. Una «mossa in ogni caso vincente» che, spiegano ai vertici dell’esecutivo, «non ha neppure isolato» l’Italia. A dimostrarlo ci sarebbe non tanto il precedente di Angela Merkel che si astenne nel 2019, ma pure la mediazione compiuta da Meloni sull’agenda strategica giovedì notte. Quando Francia e Germania hanno provato il colpo di mano per imporre un documento diverso da quello negoziato negli ultimi mesi dai Ventisette, sono stati infatti il greco Mitsotakis e Meloni ad opporsi, condensando attorno a loro la posizione contraria all’asse Macron-Scholz. Un modello di cui la premier si compiace, nella convinzione che sarà replicato sui singoli dossier all’interno dell’Europarlamento, spostando più a destra l’orientamento del nuovo corso europeo.
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