Diego Nargiso, ieri, oggi e domani del tennis italiano. Nella prima finale di Davis in Italia persa a Milano nel 1998 era giocatore, in campo; in quella vinta a Bologna è stato il telecronista di Supertennis.
Quella nazionale avrebbe battuta questa?
«Gaudenzi contro Carreno e Sanguinetti contro Munar… C’era la possibilità di vincere. Questa squadra somiglia alla nostra: due giocatori d’esperienza e molto forti in singolare, un doppio che non perdeva sulla terra da 4 anni e un gruppo molto coeso dove tutti spingono dalla stessa parte. Perciò avevo pronosticato il tris consecutivo. Anche noi stavamo molto bene insieme. Ai miei tempi, questa identità d’intenti non corrispondeva a quella dell’ambiente. Con le vittorie, questi ragazzi hanno acquisito una sicurezza e una mentalità diverse».
Che cosa ha in più, oggi, il tennis italiano?
«Lavoro e professionalità sono figli di un progetto ventennale che vede tutte le forze in campo lavorare all’unisono. Da quando il presidente Angelo Binaghi è alla guida della federazione ha fatto un lavoro a testa bassa, andando dritto come un fuso, senza mai dubitare. Ha messo degli uomini importantissimi ai posti giusti, a cominciare da Michelangelo dell’Edera, un top manager a livello organizzativo e progettuale. Eccezionale per la diffusione di questa mentalità, che ha segnato la direzione dei vari settori tecnici. Da Filippo Volandri a Paolo Lorenzi. Utilizzando ex giocatori secondo le loro tipologie personali e di mentalità. Partendo dalla conoscenza, dalla abnegazione, dalla consapevolezza che i risultati arrivano attraverso il lavoro e la continuità».
Sinner è il simbolo del Rinascimento.
«Sì, però non è un caso che escano tanti giocatori che credono in un progetto e vi aderiscano con continuità. Dopo una buona vendemmia esce il buon vino, se lavori e semini bene, poi raccogli bene. La grande differenza la fa sempre la dirigenza, in qualsiasi azienda. E poi, con regole ben precise, senza figli e figliastri, usando un’unità di misura uguale per tutti e quindi regole precise alle quali tutti si attengono. Coerenza e lavoro sono stati i giusti ingredienti per grandi risultati».
Nessun rimpianto per 27 anni fa a Milano?
«Fummo sfortunati perché Gaudenzi si fece subito male e non riuscimmo a giocarcela, con quel doppio così forte… Ma è una parte diversa della mia vita. Oggi, con grande piacere, do il mio contributo, sia in campo coi ragazzi con i quali ho lavorato, sia in termini di immagine, in televisione. All’epoca, e faccio autocritica, anche noi giocatori abbiamo fatto degli errori: magari non eravamo così uniti e non avevamo un atteggiamento del tutto umile, come questi ragazzi. Oggi vivo nel presente e nel futuro, tenendomi stretto i bei ricordi del passato da tennista professionista. Non sono mai stato un rosicone, non guarderò mai agli altri pensando: “Cavolo, vorrei stare lì io”. Non è nel mio Dna. Ho sempre amato la nazionale e la Davis, e ogni volta che l’Italia o un giocatore italiano vincono mi sento parte integrante del sistema. Felice del tricolore sul tetto del mondo».
Dopo Bologna, Cobolli può puntare ai top ten.
«Sì, fossi in lui guarderei tutti i video di Lleyton Hewitt quando è arrivato al numero 1: ha personalità, e caratteristiche fisiche e anche tennistiche simili, per ritagliarsi un grande ruolo, diverso dai giocatori che ci sono attualmente e quindi aspirare a fare una grande stagione. O comunque ad arrivare presto in alto».
La Davis può rilanciare anche Berrettini?
«Penso gli manchi solo un po’ di mobilità in più. Tennisticamente quando colpisce la palla, soprattutto dalla parte destra, è devastante. Il dritto lo tira al 60/70%? Vediamo fra 100 partite se ha la serenità di tirare quel colpo che oggi tira con più precauzione e meno sfacciataggine. Col suo team lavorerà di più sugli spostamenti, sulla rapidità nei piedi, per quando deve difendersi e poi contrattaccare. E ripartirà».
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