Vent’anni d’amore no. Vent’anni di alti e bassi, di coppe e proclami, di gioie e dolori, di slanci e dietrofront. Sono passati vent’anni da quando Lotito rilevò la Lazio il 19 luglio 2004 e pagò 21 milioni per garantirne l’iscrizione al campionato: «Sono sempre stato tifoso da bambino. Berlusconi mi chiamò e mi disse che ero l’unico che poteva salvare il club. L’ho preso al funerale, con 550 milioni di pendenze, tutti pensavano fosse una sfida impossibile, sarebbe stato più facile aspettare il fallimento. Invece, feci applicare una legge dello Stato che mi permise di saldare tutto in 23 anni, pagando 6 milioni l’anno». Mancano ancora le ultime tre rate per estinguere il debito, nel frattempo Lotito è già diventato il presidente più longevo della storia della Lazio (Ballerini lo fu per 18 anni) e non più quello “sconosciuto” proprietario di tre imprese di pulizie, spuntato dal nulla con una valigia da medico per succedere a Longo. È stato eletto più volte consigliere federale e componente del Comitato di presidenza Figc, è stato co-patron della Salernitana (trascinata dalla D alla A), è stato suggeritore di Tavecchio e diventato nemico numero uno di Gravina, ma soprattutto senatore della Repubblica, due anni or sono. Ha vinto sei trofei, due in più della Roma dal suo sbarco («Più di Cragnotti e di chiunque altro», aggiunge di continuo), ma ormai l’ultima Supercoppa risale al 22 dicembre 2019 contro la Juventus e il secondo posto del 2023 ha forse illuso tutti di nuovo su un salto di qualità per tornare davvero a lottare per lo scudetto.
I ricordi
Forse non è nemmeno questo il motivo per cui l’amore con la sua gente non è mai sbocciato, e mai sboccerà, nemmeno se davvero la riporterà nella “vecchia” casa del Flaminio. Per carità, la Lazio ha centrato l’Europa 15 volte nell’ultimo ventennio e ha fallito ogni qualvolta ci si sarebbe aspettato uno slancio più ampio sulla scia dell’entusiasmo. Fosse dopo la «Coppainfaccia» alla Roma del 26 maggio 2013 o dopo le tre qualificazioni Champions (quattro considerando i preliminari di Pioli, dopo il terzo posto). Talvolta colpa di mercati non all’altezza dei traguardi raggiunti, di peccati di presunzione legati a un’ossessione di fondo: «Siamo l’unica società in regola col bilancio». I sogni dei tifosi vengono travolti dalle gelide realtà di Lotito, un imprenditore che non prevede il rischio ed è convinto che solo con lui «il risultato è sempre garantito». Esagera nel linguaggio colorito, a volte dice bugie, altre verità scomode in modo spocchioso: il suo grande limite in questi vent’anni è sempre stato comunicativo, pure quando avrebbe dovuto parlare solo il suo merito. Ma la sua vita è una sfida, i nemici — «e molto onore» — sono linfa per vivere sempre al contrattacco: «È un uomo determinato, ostinato e combattivo», assicurano l’ex tecnico Delio Rossi e un mito del 74′ come Gigi Martini, quasi in coro. Lotito ha avuto rapporti simbiotici con i suoi direttori sportivi (Martino, Osti, Sabatini, Tare e ora Fabiani), di amore e odio con gli allenatori (Mimmo Caso, Papadopulo, Delio Rossi, Ballardini, Reja, Petkovic, Pioli, Simone Inzaghi, Sarri, Tudor, Baroni vedremo) e i giocatori (dai mitici «9, fra cui Rocchi, comprati in un giorno», a Pandev e Ledesma «lasciati a pascolare a Formello», fino all’ex figlioccio simbolo Immobile: «Era come una Rolls Royce che non camminava più») perché alla fine c’è sempre lui al centro della Lazio: «Ricordatevi che passano tutti e si rimpiazzano, sono i presidenti quelli che mancano».
Il dissenso
Sembra passata una vita da quella calda estate del 2004 quando Lotito venne accolto sotto la Curva Nord come il salvatore della Lazio. Il presidente tagliò i privilegi sugli spalti e si inimicò subito il tifo organizzato. Ma nel corso degli anni «una sparuta minoranza contro» ha trovato proseliti fra i “Libera la Lazio” dell’Olimpico, di Piazza Santi Apostoli e dell’ultima manifestazione di un mese fa, in corteo fra il Flaminio e Ponte Milvio. Siamo tornati a un clima di dissenso, forse al punto più basso: «Vogliono costringermi a vendere la Lazio. Non mollo — ci ha giurato Lotito – e, come ho sempre detto, lascerò questo club a mio figlio Enrico. Se è arrivata una proposta araba da 600 milioni di euro? Mai arrivate offerte, non c’è nulla di vero, per me questo club vale il doppio. Ci sono solo 250 milioni di patrimonio immobiliare e non ci penso proprio». Poco importa che nella Capitale continuino a tappezzare muri e ponti di “Vattene e liberaci dal male”, che sulle Dolomiti ogni giorno spunti uno striscione nuovo: «Non vengo in ritiro per evitare insulti e fischi? No, io ci ho sempre messo la faccia. Se stavolta non dovessi farcela, sarebbe solo per i miei impegni serrati. Sto lavorando giorno e notte, davvero h24, per il governo e per la Lazio». Già, c’è chi lo accusa sia ormai troppo impegnato in Senato, che non riesca più a star dietro al club capitolino, ma soprattutto che sia finito lo slogan «possiamo competere alla pari con tutti e abbattere lo strapotere del Nord» dopo l’ultima ammissione storica di debolezza a Formello: «La Lazio non sta facendo un ridimensionamento ma una riorganizzazione. Sul mercato facciamo quello che possiamo fare, rapportato al nostro fatturato». Un assist all’ultimo striscione ad Auronzo, che invoca un passaggio di proprietà a chi ha più denaro: «Sei il miglior presidente, compra e fai crescere la Lazio, Al Muammar (ex numero uno dell’Al Nassr, ndi)», la scritta in arabo tenuta in mano da un tifoso con tanto di turbante sugli spalti dello Zandegiacomo. Venti (anni) di crisi dietro l’angolo.
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