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«Sinner è in controtendenza rispetto allo spirito creativo tipicamente italiano, sembra programmato»


Un’amicizia nata sul campo, letteralmente, quando erano ragazzi. Poi “cresciuta”, sulla terra rossa, di sfida in sfida, fino a diventare “moschettieri” del tennis italiano: erano due dei quattro membri della squadra vincitrice della Coppa Davis, la prima per il Paese, nel 1976. E ora un legame, forse ancora più solido, maturato a bordo campo. Paolo Bertolucci, 74 anni, e Adriano Panatta, 75, incontratisi per la prima volta quando il primo ne aveva 11 e il secondo 12, sono uno dei “doppi” di commentatori sportivi più amato dal pubblico. A farli conoscere è stato il docufilm Una Squadra di Domenico Procacci, dal 2023, cui ha fatto seguito il podcast La Telefonata, prodotto da Fandango per Il Tennis Italiano, e ora diventato un libro La Telefonata. Gli slam del 2025 (Fandango), a cura di Dario Cresto-Dina, con prefazione di Domenico Procacci. Dagli Austrialian Open agli Us Open, un anno di sfide, trionfi, delusioni, tra “scambi” che hanno il ritmo di un match.
 

Paolo Bertolucci, come è nata la formula della telefonata? 

«È stato Procacci ad avere l’idea, sulla scia di Una Squadra. Era un modo per farci commentare, alla nostra maniera, tra serio e faceto, i grandi eventi tennistici dell’anno, senza date fisse, in base ai nostri impegni. Alla fine, l’idea del libro».
 

Il podcast è stato un successo. Significa anche che è aumentato l’interesse per la disciplina? 

«Sull’onda del fenomeno Sinner, c’è stato un boom di gente interessata. Va detto che quando si vince, tutti salgono sul carro». 
 

Come avete visto cambiare il tennis negli anni?

«Moltissimo. D’altronde, è cambiato il mondo. Il tennis era in bianco e nero. Si giocava con le Superga “bucce d’arancio”, non si stava in piedi, non c’erano i social. Chi avrebbe mai pensato che il mondo sarebbe andato a questa velocità?». 
 

È un bene o un male per lo sport?

«È quello che è. Non servono confronti. Tutto va avanti. Pensiamo alle auto. Ne ho una nuova da un anno e ancora non so a cosa servono alcune cose, ho desistito, non lo scoprirò». 
 

Nessun confronto, però ha detto che il tennis oggi è violento. 

«È molto più fisico e meno tecnico. Tutti tirano più forte ma il campo ha le dimensioni di prima. È cambiata la preparazione. Noi siamo stati pionieri, andavamo con i cavalli in un Far West, prendendo spunto dagli errori e dalle cose che facevamo bene. Ora i ragazzi sono auto da Formula 1, ma un sasso può far inceppare l’ingranaggio». 
 

Ha detto che Sinner è un’IA naturale. Perché? 

«Sembra programmato, riesce a primeggiare attraverso il lavoro. È un po’ controtendenza rispetto allo spirito creativo tipicamente italiano». 
 

C’è meno sentimento in campo?

«Si va a una tale velocità che non c’è tempo per ritmo o sensibilità». 
 

Le sarebbe piaciuto mettersi alla prova in questo modo? 

«Io, con le mie qualità non avrei potuto giocare a questi ritmi, con questa violenza, contro questi atleti». 
 

Torniamo a Sinner: campione riconosciuto ma divisivo, specie dopo la scelta di non partecipare alla Coppa Davis, che ha determinato anche una dura critica da parte di Bruno Vespa.

«Chi non è divisivo? Dipende cosa ti piace. Ci sono anche giocatori che buttano via il loro talento, potrebbero essere tranquillamente i numero 10 al mondo e magari sono 30. Alcuni sono abbagliati da questi caratteri. Io lo sono da chi arriva in cima». 
 

Come vede il futuro del tennis?

«Ora c’è il duopolio, Alcaraz-Sinner. E dietro il vuoto. Almeno per tre anni andrà così». 
 

Nel 2026 saranno 50 anni dalla vittoria della Coppa Davis, come pensa di festeggiare? 

«Non ci ha mai filato nessuno per il decennale e dopo, direi che non si farà nulla». 
 

Come mai, secondo lei? 

«Forse si desiderava dimenticare gli Anni di Piombo e si è cancellato anche il resto». 
 

Campione, commentatore, scrittore: altre sfide la tentano? 

«Cerco di essere competente nel mio ramo, non vorrei addentrarmi in altri. Troppi lo fanno. Io dopo sessant’anni nel tennis, non penso di sapere tutto, mentre c’è chi ne è convinto dopo tre partite. Lo ripeto: tutti salgono sul carro del vincitore».


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