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«Risorse dal risparmio e politica industriale per tornare competitivi»


«Bisogna tornare a fare politica industriale. In Italia quanto in Europa». È da qui che inizia il ragionamento di Angelo Camilli, presidente di Unindustria e vicepresidente con delega al fisco e credito di Confindustria, per frenare la deindustrializzazione che sta colpendo il nostro Paese.

Ieri l’Istat ha segnalato che nella crescita del Pil cala l’apporto dell’industria. Confindustria però registra, sulle aspettative delle imprese, i primi segnali positivi.

«Certo, l’industria come l’agricoltura dà un contributo negativo. Però questo trimestre, con il suo +0,2 per cento, è comunque positivo. È il quarto consecutivo. Se questa tendenza fosse confermata, potremmo raggiungere a fine anno l’1 per cento di Pil in più stimato dal governo. E fa ben sperare il dato rilevato da Confindustria sulle aspettative delle grandi industrie. Detto questo credo che, puntando su un rilancio della politica industriale, si potrebbero mettere le basi per far crescere maggiormente la ricchezza del Paese».

Intanto nel Lazio Unindustria sta ideando un piano per la reindustrializzazione.

«Abbiamo proposto al governatore Francesco Rocca di lavorare assieme a un piano industriale per il nostro territorio, che consenta al Lazio di recuperare il 20 per cento di livelli produttivi negli ultimi 20 anni: siamo passati da un valore di 14 miliardi di euro a 9, che si traduce in un gap di competitività. Mai come in questa fase, l’industria incorpora un grado maggiore di innovazione, digitalizzazione e sostenibilità. Ha un effetto moltiplicatore di ricchezza più alto (1,833, ndr) di altri comparti, trascina il ricorso ai servizi a valore aggiunto. Soprattutto stimola un aumento dei salari e dell’occupazione. Per questo crediamo che serva investire maggiori risorse sulle principali filiere, spingere per accrescere le dimensioni delle imprese, monitorare gli investimenti, accelerare sulle semplificazioni – cioè fare politica industriale – spinga la crescita del territorio. Ma è un discorso che vale anche a livello nazionale».

Qual è la ricetta delle imprese per arrestare il processo di deindustrializzazione?

«Non entro nel tema delle grandi riforme e non perché non sia importante. Mi soffermo invece su un dato: le nostre imprese, nel 2023, hanno raggiunto un record storico nell’export con vendite per 600 miliardi. E se siamo il quinto Paese esportatore al mondo è perché in tutti gli anni Duemila l’industria italiana è stata virtuosa nella creazione di nuovi insediamenti, ha dimostrato una maggiore propensione agli investimenti anche rispetto a Francia e Germania».

Quindi?

«Bisogna rilanciare provvedimenti che hanno favorito questi processi come Industria 4.0, che ha messo in campo circa 5 miliardi di incentivi per i macchinari, che poi hanno generato oltre 10 miliardi di investimenti. Per questo spero che possa portare gli stessi effetti Transizione 5.0. Non meno importante è il tema del costo del denaro — è necessaria una riduzione più veloce dei tassi di quella avvenuta finora — o quello dell’energia. Così come bisogna mantenere il taglio del cuneo fiscale, che non va nelle tasche delle imprese, ma favorisce la capacità di spesa dei lavoratori. E non dimentichiamo i tempi della pubblica amministrazione, indipendentemente se parliamo del rilascio di un’autorizzazione o il via libera degli investimenti. Sono misure che a qualcuno possono sembrare banali, ma che assieme garantiscono un’accelerazione fortissima alla crescita».

Le eccellenze industriali non mancano, però la competitività è in calo da almeno un ventennio?

«Nonostante tutti i deficit che limitano la loro competitività, le nostre imprese hanno mostrato capacità di innovazione e spirito di innovazione fortissimi. Anche durante crisi indipendenti dalla nostra volontà come il Covid. Ripeto, quello che è mancata è la politica industriale, partendo dall’interesse per alcune filiere strategiche come l’acciaio e l’automotive. Al riguardo, mi sembra che ci sia un’inversione di tendenza».

Come coagulare l’altissimo risparmio verso progetti industriali nostri, evitando che l’assorbano solo i fondi esteri, i quali spesso poi procedono ad acquisizioni di aziende del nostro Paese?

«Il tema è fondamentale perché soltanto per far fronte alla transizione energetica, il Centro studi di Confindustria ha stimato che servono 1.100 miliardi per l’Europa e 680 per l’Italia. Il Pnrr in questa direzione ne prevede 60. È evidente che servono risorse anche dal privato e che il sistema finanziario e bancario, pur frenati dalle regole patrimoniali, debbano fare la loro parte. Vogliamo fare incontrare le nostre imprese con le autorità di Borsa per facilitare i collocamenti, con i fondi pubblici e privati per la creazione di strumenti che aumentino i livelli di patrimonializzazione o di venture capital. E apriremo un’interlocuzione con i fondi pensionistici e previdenziali».

Intanto la nostra industria e quella europea sembrano sempre più schiacciate da un lato dagli Usa e, dall’altro, dalla Cina.

«Dall’inizio del secolo, i livelli di crescita europei sono scesi di circa 20 punti rispetto ai due grandi concorrenti. Con le altre Confindustrie europee abbiamo chiesto alla nuova Commissione di rilanciare la politica industriale. Si ritorna a parlare di dazi, che in alcuni settori hanno un impatto positivo, in altri sono devastanti. Credo che il nostro punto di forza sia, come Europa, negoziare la reciprocità con i nostri concorrenti, difendendo le produzioni nazionali. Ma si deve essere uniti».

La Ue porta avanti un Green deal che comporterà costi altissimi.

«I numeri sono quelli che ha indicato il centro studi di Confindustria. L’importante è superare politiche ideologiche e poco pragmatiche. Nessuno nega che la strada è quella della decarbonizzazione, ma in quest’ottica noi abbiamo proposto il principio della neutralità tecnologica: in attesa di tecnologie non ancora disponibili, possiamo utilizzare strumenti consolidati che ci garantiscono risultati eccellenti, senza rischiare impatti sociali devastanti».

Intanto i casi di Comau, della rete Tim o di Enilive dimostrano che va avanti lo shopping straniero di industrie italiane.

«Il discorso è abbastanza complesso. Ma il comune denominatore è sempre lo stesso e ha a che fare con la mancanza di politica industriale. Questo ha generato un gap di competitività delle nostre aziende e della capacità di fare economie di scala come avviene in altri sistemi Paesi».

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