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resiste alle radiazioni e potrebbe cambiare l’esplorazione spaziale


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Aggrappato alle pareti interne di uno dei luoghi più radioattivi sulla terra, tra le macerie del reattore 4 di Chernobyl, all’inizio degli anni novanta, gli scienziati hanno trovato uno strano fungo nero con delle caratteristiche uniche. Il suo nome? Cladosporium sphaerospermum. Questo fungo nero, ricco di melanina, non solo tollera livelli di radiazione che sarebbero letali per qualsiasi forma di vita complessa, ma sembra addirittura crescere meglio quando esposto a un’intensa dose di radiazione ionizzante. Una caratteristica che, negli ultimi anni, ha attirato l’attenzione delle principali agenzie spaziali del mondo.

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Una protezione naturale

Il motivo è semplice: mentre sulla Terra siamo protetti da un’atmosfera spessa e da un campo magnetico che respinge la maggior parte delle particelle cosmiche ad alta energia, nello spazio gli astronauti sono esposti a radiazioni costanti e potenzialmente mortali.

Questo vale tanto per le future basi lunari quanto per le missioni dirette verso Marte, dove l’esposizione cumulativa può diventare un problema impossibile da ignorare. Le soluzioni tradizionali prevedono l’uso di materiali pesanti o difficili da trasportare, come metalli, acqua o polietilene. Tutti elementi che aumentano i costi e la complessità delle missioni.

Da qui nasce il fascino del fungo di Chernobyl. Nel 2020 una coltura di C. sphaerospermum è stata inviata sulla Stazione Spaziale Internazionale per verificare come si comportasse in un ambiente caratterizzato da radiazioni cosmiche reali. I risultati hanno confermato ciò che i ricercatori sospettavano: il fungo continuava a crescere senza difficoltà e, soprattutto, riduceva leggermente il livello di radiazione rilevato sui sensori posti al di sotto della coltura. Una variazione minima, certo, ma sufficiente per dimostrare che uno strato più spesso potrebbe offrire una protezione molto più consistente.

Gli studi

Da quel momento l’ipotesi di uno “scudo vivente” ha iniziato a circolare sempre più spesso nei centri di ricerca: un materiale biologico capace di autorigenerarsi, adattarsi alle radiazioni e crescere quasi da solo, senza la necessità di trasportare tonnellate di schermature dalla Terra. In un futuro non troppo lontano, gli astronauti potrebbero coltivare direttamente nello spazio grandi quantità di funghi melanizzati, utilizzandoli per rivestire aree sensibili delle astronavi o persino per costruire pannelli biocompositi destinati agli habitat lunari e marziani. Sarebbe un cambiamento epocale nel modo di progettare infrastrutture extraterrestri, basate non più su materiali statici ma su organismi che si riparano autonomamente.

Esiste anche una questione scientifica ancora aperta: la cosiddetta “radiosintesi”. Alcuni studi suggeriscono infatti che la melanina del fungo possa assorbire la radiazione e convertirne una parte in energia utile per la crescita, un po’ come fanno le piante con la fotosintesi. È un’ipotesi affascinante, ma non ancora dimostrata con certezza. Ciò che invece sappiamo è che il fungo tollera la radiazione, la assorbe e continua a prosperare, e questo è già sufficiente per renderlo un candidato ideale per applicazioni spaziali.

Immaginare che un organismo scoperto nel luogo di uno dei peggiori disastri nucleari della storia possa diventare un alleato fondamentale per l’esplorazione dello spazio profondo sembra quasi un paradosso. Eppure è esattamente ciò che suggeriscono i ricercatori: il futuro delle missioni su Luna e Marte potrebbe dipendere proprio da questa forma di vita nata nel buio radioattivo di Chernobyl. Là dove tutto sembrava destinato a morire, la natura ha trovato un modo per adattarsi.


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