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«Prima del permesso di soggiorno non è stato facile. A Roma molte notti ho dormito per strada»


Andy Diaz Hernandez è nato il giorno di Natale del 1995, habanero di Cuba. Ha un cugino bravissimo nel salto triplo, Osniel Tosca, che fu quarto ai mondiali del 2007. Si è ispirato a lui, ed è diventato triplista: l’arte da funamboli dell’hop, step, jump, tre passi nel delirio coi muscoli che si impregnano di acido lattico, poi l’atterraggio sulla sabbia dopo oltre 17 metri. Ma Cuba gli stava stretta o peggio, come capita a molti suoi connazionali, e ne è fuggito per approdare in Italia: «Dove ho dormito per strada, spesso, a Roma. In attesa dei documenti». L’altra sera, alla finale olimpica del triplo, il podio era occupato da tre cubani espatriati: Jordan Diaz medaglia d’oro per la Spagna con 17.86, Pedro Pichardo argento per il Portogallo con 17.84, Andy Diaz bronzo per l’Italia con 17.64. Per Andy era la prima gara con la maglia azzurra: arrivato nel 2021, all’inizio ha vissuto tra mille disagi, è diventato italiano a febbraio ‘23, ma solo dal 1° agosto scorso i regolamenti dell’atletica gli hanno consentito di gareggiare per l’Italia. Lo chiamano “Il leone”, è delle Fiamme Gialle.

Come è arrivato in Italia?

«Mia madre mi ha avvicinato all’atletica, poi vedevo mio cugino che faceva 17.52 e volevo essere migliore di lui, anzi della mia famiglia. Poi anche il migliore del mio paese e poi del mondo. Ma ho capito Cuba non mi poteva dare il sogno e me ne sono andato».

Approfittando di un viaggio con la nazionale cubana, come è accaduto a molti altri atleti.

«Di ritorno dalle Olimpiadi di Tokyo 2021, dove non ho gareggiato ma ero nella lista degli atleti, abbiamo fatto scalo in Spagna, e solo lì sono venuto in possesso del mio passaporto, perché prima ce lo avevano requisito. Così me ne sono andato per conto mio, e sono arrivato in Italia: mia madre me ne aveva parlato tanto, la conosceva. Lei è il riferimento indispensabile della mia vita».

Ma i primi tempi non sono stati facili.

«Non avevo nulla e vivevo di nulla. Ho dormito in strada parecchie volte fuori dall’ufficio immigrazione a Roma, poi hanno spostato la sede e sono andato anche dall’altra parte. Dovevo dormire lì vicino per non perdere la priorità per l’appuntamento per i documenti. A volte non ho visto belle scene. Poi mi arrangiavo come potevo, di giorno. Ma adesso dico che tante notti trascorse in strada non sono passate invano».

Quante notti, sui marciapiedi di Roma? Quanto tempo è rimasto in quelle condizioni?

«Rispondo così: il tempo che è trascorso fino a quando Fabrizio Donato mi ha preso con sé».

Ex triplista e medaglia di bronzo a Londra 2012, quindi un collega. E la accoglie a casa sua a Natale del 2021, nei giorni del suo compleanno…

«La mia fortuna è stato lui. L’ho contattato in qualche modo via social, lui ha risposto e si è preso cura di me da subito. Mi ha accolto in casa sua, mi ha dato da mangiare, mi ha seguito in tutto il mio percorso di rinascita. Devo tutto a lui e all’Italia. Il bronzo a Parigi è stato il mio modo per ringraziare il vostro Paese».

Donato è per lei solo l’allenatore o anche altro?

«È tutto. Allenatore, massaggiatore, mental coach e anche papà. Risolve tutti i problemi della mia vita. Mi ha anche aiutato a far venire in Italia mia madre, che è con me da un anno ed è una presenza indispensabile per me. Dopo la gara Fabrizio dalla tribuna mi ha detto che pure lui aveva vinto il bronzo olimpico nel triplo, a Londra nel 2012. Non lo sapevo o non me lo ricordavo, è stato un segno del destino».

La sua prima gara in azzurro, e prima alle Olimpiadi, è stata un successone. Com’è andata?

«Ero arrabbiato perché in qualificazione avevo saltato male, solo con l’ultima misura di ingresso. Una rincorsa da ragazzino, quando mi sono rivisto. Proprio brutto. Forse è stata l’emozione di gareggiare in uno stadio così impressionante: solo un’altra volta mi era capitato di saltare in un posto grande come quello. Ma poi in gara è andato tutto molto meglio, abbiamo dimostrato che potevamo starci in quella finale, e che io sono “ cane da guerra”».

Anche per quello, forse, il bronzo non le è andato così bene.

«Ero arrabbiato sì, volevo l’oro. Sono un atleta e scendo in pista per vincere, sennò che ci vado a fare? Sto lì per quello. Ma adesso sono carico per il futuro. E sono consapevole della mia forza».

Del resto, anche non in maglia azzurra, lei ha già vinto nell’atletica.

«Due volte la Diamond League, nel 2022 e nel 2023. Peccato che quest’anno qualche problemino muscolare mi abbia condizionato, sennò sarei arrivato meglio alle Olimpiadi e allora chissà».

Di Parigi cosa le rimarrà?

«Che l’azzurro è il mio colore preferito. E che Parigi è stato solo un inizio, anzi l’inizio: il rubinetto ormai è aperto, e si va».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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