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Papa Leone XIV, il selfie rifiutato, la firma sulla palla da baseball, la sciarpa e la battuta su Sinner: la liturgia pop


Parla ai giornalisti e non solo a loro, ma a tutti quelli e sono sempre di più che sentono il bisogno di una maggiore qualità e verità dell’informazione. E parlando di una comunicazione che deve liberarsi dei luoghi comuni e dei «linguaggi spesso ideologici e faziosi, senza amore», Leone XIV insiste su un aspetto che è formale ma soprattutto sostanziale: «E’ importante lo stile che adottate». Ma è proprio lo stile del nuovo papa, o meglio il concetto di leadership e di autorità che ha deciso di rappresentare in un miscuglio di essere e tempo, quello che emerge nel suo debutto all’auditorium Pio VI — un pontefice a cui per un certo approccio culturale viene da associare quello attuale — di fronte a chi fa informazione e giornalismo.

Attraversa alla fine del discorso il corridoio centrale della sala, cioè si avvicina alla folla, ma non elargisce baci e abbracci il papa, limitandosi a sfiorare moderatamente le braccia rivolte verso di lui. Evita un selfie che gli viene richiesto da qualcuno nelle prime file. Si fa fare una foto insieme a una missionaria peruviana vestita di bianco, notando con un sorriso «l’armonia cromatica» tra i rispettivi abiti, e accetta di mettersi al collo la sciarpa andina che lei gli offre ma subito dopo la foto se ne libera perché un papa è un papa. Insomma, si concede Leone ma a modo suo. Mostra di essere alla mano, ma dichiarando — nel suo discorso e nel suo atteggiamento — una postura che richiama la pedagogia, l’autorità e la dignità del ruolo in cui si mescolano tradizione e modernità (ovvero non spinge troppo sul pop ma neppure emana quella ieraticità che dopo Bergoglio sarebbe fuori tempo) e in cui convivono, secondo il motto del suo adorato Sant’Agostino, charitas e scientia, la carità e la conoscenza, l’equilibrio tra l’amore per il prossimo, la fraternità e la competenza.

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LA SINTESI

La sintesi di tutto è l’autorevolezza e ogni sua sillaba di questa è impregnata. Anche quando scherza. Come ha fatto alla fine dell’incontro con i giornalisti. Quando una cronista le chiesto di organizzare per beneficenza una partita di tennis — grande passione sportiva di Prevost — e lui: «Certo va bene». «Io porto Agassi», ha insistito lei, ridendo. E lui: «Basta che non porti Sinner», giocando sul doppio senso sia perché l’italiano è il numero uno del mondo sia perché il suo cognome in inglese significa «peccatore».

L’ISTITUZIONE

Non perde mai vista Leone XIV, anche nella sua esposizione pop, l’istituzione che rappresenta. Il suo è il logos (in principio erat verbum, ma anche in seguito), la dialettica, lo scambio, il capirsi e l’andare insieme per comprendersi ancora di più ma non s’intravede in lui alcuna tendenza a farsi follower. Semmai sembra credere nel suo compito di pastore che orienta e non solo accompagna o segue. Il suo stesso pacifismo, e ieri ha ribadito pace, pace, pace, non pare essere quello andante e arrendevole, e del resto un agostiniano doc non può che pensare la pace e la guerra come il vescovo di Ippona. Il quale — ma si potrebbero fare decine di citazioni — nel «Contra Faustum Manichaeum, libro XXII, capitolo 74, scriveva: «Presso i veri adoratori di Dio son pacifiche anche le guerre, le quali non si fanno per cupidigia o per crudeltà ma per amore della pace, ossia per reprimere i malvagi e per e per soccorrere i buoni».

E comunque, questo papa ironico e sagace — come s’è visto ieri quando ha messo la sua firma «Leone PP XIV» da tifoso chicagoano dei White Sox su una palla da baseball, o quando da giallorosso dice Forza Roma — si concede ma senza banalizzare l’istituzione di cui è massimo rappresentante. Non può non essere un boomer il nuovo pontefice — è un figlio degli anni ‘50 — ed è connaturato ai boomer come lui lo stile di comando non ostentatamente gerarchico e il modello di autorità non platealmente verticistico (anche se molti boomer, allevati nel totalitarismo soprattutto di sinistra, si sono rivelati ego-riferiti nella gestione del potere) e più portato alla collegialità. Ma il papa è il papa e lui ha adottato un modello di leadership mite e non smaccatamente carismatica, poco giudicante e tutta tendente alla serietà e alla serenità, e insieme però — visto che ogni papa rappresenta il momento storico in corso, ed è il motivo per cui la Chiesa dura da sempre — non propagandisticamente anti-conformista, anzi rassicurante in una fase di disordine in cui tanta gente chiede rassicurazione o addirittura tradizione. Non è un anti-moderno Prevost, tutt’altro.

Rispolvera a suo modo, e solo per certi aspetti, una classicità di cui si avverte il bisogno, impersona una storia bimillenaria che non accenna ad essere superata — come dimostra la partecipazione popolare fisica, televisiva e social alla morte di Francesco, all’evento del conclave e alle prime uscite pubbliche di Leone — e insieme non può che essere l’incarnazione spirituale ma anche secolare di quel contesto di cui l’acclamatissimo filosofo francese Guy Debord nel 1967 diceva: «L’intera vita della società si annuncia come un accumulo di spettacoli». Ma lo spettacolo di Prevost — ecco la sorprendente bellezza dei nostri tempi — richiama più Sant’Agostino che il New Pope di Sorrentino.

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