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Meloni-Schlein, il duello a distanza tra le leader apre la campagna elettorale. Il doppio registro della premier


A Castel Sant’Angelo, sotto al tendone che fa un po’ serra (e infatti fa molto caldo…) e un po’ chiesa in costruzione (e infatti è domenica e a due passi da qui c’è appena stato l’Angelus) è come se Giorgia Meloni si fosse piazzata in mezzo al campo e, come si faceva da ragazzini, avesse tracciato con il tallone una riga: noi (lei e il centrodestra) di qua, loro (Schlein e chi sta a sinistra) di là. Una riga di demarcazione chiara, che ha anche un altro valore: segna, da ieri 14 dicembre, l’inizio vero e proprio della campagna elettorale. E non di quella referendaria, che tutti in questo momento fanno a gara a spoliticizzare («fregatevene della Meloni», dice la premier ai suoi militanti), ma quella per le politiche, nella lunga corsa che ci porterà alla primavera del 2027.

LA COMUNICAZIONE

E chi si aspettava una Meloni più “istituzionale”, magari più “dorotea”, forse meno “kombat”, è stato servito. Sì, certo. Atreju, mai come quest’anno, è stata una grande rappresentazione da “partito della Nazione”: zero simboli di partito in giro per gli stand, pochi tratti identitari, stop a quella goliardia anni duemila con gli scherzi in cui cadevano anche Fini e Veltroni, ospiti dello star system come Buffon/D’Amico, Venier, Bova, Carlo Conti, soprattutto il confronto con (quasi) tutti i leader dell’opposizione. Ma poi, al momento di tirare le fila, dopo nove giorni intensi, alla fine arriva Giorgia e torna a calcare sui registri comunicativi che più infiammano la sua platea. Gli affondi alla sinistra, in alcuni momenti, hanno del berlusconiano: il vecchio leader parlava di una «sinistra triste, che non si diverte», Meloni dice che «porta sfiga, come quando a Mercante in Fiera hai la carta della Pagoda (una di quelle che non vince quasi mai, ndr), che «rosica» sulla cucina italiana diventata patrimonio Unesco. E poi Elly «che scappa», il campo largo che «ho riunito io e non lei», Ilaria Salis che occupa le case e Francesca Albanese con i suoi «moniti» ai giornalisti, dopo l’assalto alla sede della Stampa. Soprattutto, Meloni gioca su un registro “meta-politico”: nel suo storytelling parla ad una comunità che viene da lontano, che ha lottato, che ha cercato di non compromettersi con il potere. Una comunità per cui «l’orgoglio», la «possibilità di guardarsi allo specchio la mattina», il «coraggio delle scelte difficili», «la capacità di ricordarsi sempre da dove si è venuti», sono concetti che fanno presa. E lo fa, Meloni, alzano e abbassando, passando dallo Spread che scende alla cucina di «mamme e nonne», dalla fiducia degli italiani “certificata” dall’acquisto dei titoli di Stato alle citazioni di Antonello Venditti («Atreju è il luogo dove Nietzsche e Marx si davano la mano»), da Blaise Pascal al Nanni Moretti del «mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente?».

IL CONFRONTO

Ma soprattutto, Meloni può giocare su due registri. Uno è quello identitario, nel quale – alla fine – riesce a far stare dentro tutto: l’europeismo di una vecchia destra che gridava “Europa nazione” («L’Europa non è al tramonto», ha detto ieri la premier) con il trumpismo della nuova destra, la simpatia filo-palestinese del passato con la realpolitk del presente, l’attenzione per il rating con la destra sociale. L’altro registro è quello dei tre anni di governo, nei quali ci sono degli aspetti che Meloni può legittimamente rivendicare: su tutti, la stabilità (anche nella squadra dell’esecutivo dove, al netto di Fitto trasferitosi a Bruxelles, c’è stato un solo avvicendamento, quello di Sangiuliano), che si traduce in postura internazionale, prestigio e miglioramento dei dati macro-economici.

Mentre Schlein, ad di là delle normali critiche al governo (è l’abc per un partito di opposizione), sembra ancora definirsi più per contrasto che per proposta. Cioè, “noi non siamo come Meloni”. E fino a qui. Ma poi? L’alleanza di centrosinistra pare tutta da costruire: un passo avanti e due indietro. L’ultima doccia gelata, proprio ad Atreju, è quella di Conte che dice «non essere alleato del Pd». Frase che racconta di un nervo che è rimasto scoperto: il leader M5S ancora non ha accettato (e chissà se lo farà mai) che sia Elly a correre per Palazzo Chigi. A Schlein manca, ancora, un racconto davvero alternativo a Meloni e rischia di subire da mondi vicino alla sinistra più danni che benefici (vedi la vicenda della piccola casa editrice contestata a “Più libri più liberi”): la destra luogo delle libertà, specie di opinione, la sinistra quella delle censure. Soprattutto, a parlare sempre di Meloni, ci guadagna solo la premier. Come fu, in effetti, per Berlusconi.


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