C’è tutta l’Italia che conta. E il colpo d’occhio è quello che fa vedere, all’Auditorium Parco della Musica dove Confindustria ha chiamato tutti, un Paese che si cerca e si trova e che sa di poter dire la sua nelle varie sfide in corso se applica la ricetta delle tre C — compattezza, concretezza, crescita — che sono il leit motiv di questa grande adunata delle classi dirigenti. Numero di applausi a Giorgia Meloni, in elegante tailleur pantalone bianco? Venti. E quella che va in scena è la rappresentazione di una consonanza sui temi e di un abbraccio politico, ma politica intesa come concretezza delle cose da fare, tra gli imprenditori e il capo del governo. Hanno trovato Giorgia pragmatica e decisa, molto orgogliosa della forza dell’Italia. «Cresciamo più degli altri — spiega Meloni — e il più 1 per cento di salita del Pil è a portata di mano».
E ancora: «Confido che continueremo a lavorare insieme. Avrete da parte nostra un confronto leale e regole certe. Non andremo sempre d’accordo ma la penseremo sempre allo stesso modo su un punto: l’Italia può ancora stupire e lasciare tutti a bocca aperta. A lungo abbiamo rincorso gli altri, e arrivato il momento di farci rincorrere dagli altri». La forza di un Paese troppo abituato, a torto, a non sentirsi all’altezza, il destino di una nazione che può competere e vincere: su questo, Meloni batte e ribatte («Ma bisogna aumentare la produttività del lavoro, in questo siamo sotto la media europea»), su questo auspica un idem sentire tre il ceto imprenditoriale e la classe politica e su questo crede che il suo governo, se ben supportato dal patriottismo del fare dei produttori e dei lavoratori, possa distinguersi rispetto ai precedenti. Le voci di dissenso, in platea, sono davvero poche. A Landini si avvicinano industriali emiliani che lui conosce e gli fanno amichevolmente: «Fai il bravo, Maurizio. Non creare casini sulla legge di bilancio».
SIPARIETTI
Non è una giornata per i guastafeste. Riccardo Magi, leader di Più Europa, ascolta. Calenda, in prima fila, stigmatizza l’uscita da Azione di Gelmini e Carfagna: «Sono ingrate». E Schlein entrando nella sala Santa Cecilia incontra tra i primi La Russa ed ecco il siparietto. Lui la saluta cercando di abbracciarla e baciarla, lei fa un passo indietro. Il presidente del Senato: «Hai paura di baciarmi?». La segretaria del Pd: «No, è solo che da più di un mese passo da un raffreddore all’altro, e temo le contaminazioni». La Russa: «Metti una mascherina allora…». Lei: «Forse lo farò», e si va a sedere scortata dal capogruppo dem, Boccia. Il governo è quasi tutto in sala.
Manca Giorgetti e viene giustificato così da un imprenditore bolognese: «Voleva sottrarsi alle nostre richieste e alle nostre lagne di industriali in vista della legge di bilancio, e lo posso capire». E manca Fitto, che sarebbe stato una star in questo contesto (prende applausi comunque). Meloni ne parla affettuosamente nel parterre: «Raffaele sta studiando per le audizioni da commissario nell’Europarlamento. Un esame tosto ma lo supererà perché è un secchione». Nelle file dietro a lei e al governo, occhio ai grandi protagonisti dell’economia, da Francesco Gaetano Caltagirone a Andrea Orcel di Unicredit e a Carlo Messina di Intesa San Paolo. E ancora: Giovanni Gorno Tempini (Cdp), Fabrizio Palermo (Acea), Antonio Patuelli (Abi) e moltissimi altri. Gianni Letta, seduto a metà platea, è molto riverito. Marina Berlusconi non c’è.
Orsini a Meloni chiede di rivedere il Green Deal (su cui lui è spietato e lei lo è quasi di più: «Quelli del Green Deal sono effetti disastrosi su industria e posti di lavoro») e la premier si dice d’accordo su tutto e si mostra attrezzata per rendere fatti politici queste opzioni confindustriali. Orsini chiede la conferma del taglio del cuneo fiscale e Meloni rassicura. Il piano casa per i neo-assunti, uno dei pallini del leader confindustriale, la premier promette d’inserirlo nelle prossime misure allo studio del governo. Idem per il ripristino dell’Ace, che è un incentivo alla patrimonializzazione delle società.
TRA PALCO E REALTÀ
Meloni ha fatto professione di realtà: il governo dovrà scegliere delle priorità su cui puntare («Non getteremo i soldi dalla finestra per avere in cambio consenso») e i miliardi da destinare alle imprese non sono tantissimi. Ma il senso della legge di bilancio è chiaro: «Sostegno alle imprese che assumono, rafforzamento del potere d’acquisto delle famiglie, difesa della salute dei cittadini». «Li voglio vedere», è il commento a mezza bocca di Schlein. Il cui ultimo libro — «L’imprevista» (Feltrinelli) — diversi aderenti di Confindustria hanno appena comprato nella libreria dell’auditorium, lo compulsano in sala e si interrogano a vicenda: «Ma tu hai trovato le pagine in cui parla di sviluppo industriale e di competitività? Io non riesco a trovarle…».
Fa impressione sentire le cadenze linguistiche dominati in questa assemblea. Spiccano quelle emiliane-romagnole (Orsini è di Sassuolo e parte del suo gruppo dirigente condivide le zone d’origine) e quelle laziali. A riprova del nuovo asse di comando di Confindustria, che si è spostato, meno Milano e più Roma, ed è meglio sintonizzato su esigenze generali e diffuse: basti pensare che il Lazio è la regione che produce l’11 per cento del Pil nazionale.
E comunque, tra palco e realtà, non si fa che ripetere: vanno contrastate la scarsa innovazione, la debole concorrenza, la poca produttività, la disattenzione al fattore umano (Meloni cita Adriano Olivetti sulla funzione sociale delle aziende: «La fabbrica per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica»). L’Auditorium ha ospitato questa musica, tocca ora al partito del Pil e alla politica tradurre le melodie in fatti.
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