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«Cominciamo con un paradosso. L’Italia di Dante — o, più in generale, l’Europa di allora — e l’Italia di oggi non sono così distanti come potremmo pensare. Il senso di continuo cambiamento politico, di un territorio frammentato in città grandi e piccole spesso in conflitto tra loro, è un’eredità diretta dell’epoca dei Comuni e delle Signorie, quando l’Italia era un mosaico di stati concorrenti. Questo retaggio di rivalità, questa difficoltà a unirsi attorno a uno scopo comune, è qualcosa che gli italiani riconoscono ancora oggi. Dante crebbe in questo mondo turbolento, e nei suoi scritti rese evidente che tali divisioni non erano solo politiche, ma anche morali — il segno di una società in perenne tensione con sé stessa». Così Fabio Corsico, Direttore al master in family business Luiss e prof allo IE (università de empresa) di Madrid e Parigi, nel suo intervento alla Luiss di Roma per il lancio del libro di Santiago Iñiguez de Onzoño ‘Dante in the workplace: how leaders can avoid the seven deadly’- ‘Dante sul posto di lavoro: come i leader possono evitare i sette peccati capitali’. Nel convegno, introdotto dal rettore della Luiss Paolo Boccardelli e dall’ambasciatore spagnolo in Italia Miguel Fernández-Palacios, oltre a Corsico e all’autore del libro è intervenuto Guido Maria Brera, Chairman of Kairos Partners SGR & Co-founder del Karios Group.
«Luiss e IE condividono la missione di formare una nuova generazione di leader consapevoli e responsabili: un obiettivo che dà forza alla nostra partnership, un dialogo costruttivo e continuo che mira a creare nuove opportunità di collaborazione accademica e di mobilità internazionale per gli studenti». Lo ha dichiarato il Rettore della Luiss, Paolo Boccardelli, che ha poi proseguito: «In questo libro, il Presidente di IE, Santiago Iñiguez de Onzoño, connette il tema della leadership alla letteratura partendo dalla Divina Commedia di Dante e, in particolare, dal Purgatorio, che è il luogo della trasformazione. Un concetto fondamentale, perché la leadership non è una posizione, ma un percorso di continuo miglioramento, proprio come quello che lo stesso Dante attraversa. E come le anime del Purgatorio, i leader devono imparare a riconoscere i propri limiti, confrontarsi con i propri “peccati” per tramutarli in virtù. Si tratta di un lavoro ricco di spunti, utili ai lettori, quanto a manager e organizzazioni. Ed è prezioso – ha concluso il Rettore Boccardelli – anche per le Università, che hanno il compito di supportare i giovani nel coltivare e sviluppare il loro talento».
L’INTERVENTO INTEGRALE DI FABIO CORSICO
«Firenze, alla fine del XIII secolo, non era soltanto una città di bellezza e d’arte; stava diventando una delle capitali finanziarie d’Europa — anzi, del mondo. I suoi mercanti e banchieri stavano gettando le fondamenta di ciò che sarebbe esploso nel Rinascimento. Famiglie come i Bardi, i Peruzzi e i Frescobaldi aprirono filiali in tutta Europa, finanziando re, papi e commerci internazionali. Utilizzavano nuovi strumenti finanziari, come la commenda e la colleganza, per raccogliere capitali e distribuire i rischi. Perfezionarono le lettere di cambio e le forme di credito che permettevano al denaro di muoversi più rapidamente delle merci. Firenze coniò il fiorino d’oro, una moneta la cui stabilità la rese la valuta più affidabile d’Europa. In breve, Dante visse nel cuore di un mondo che stava inventando la finanza moderna.
A questo dinamismo economico straordinario corrispondeva un altrettanto straordinario fermento culturale. Giotto, di appena un anno più giovane di Dante, rivoluzionò la pittura inventando la prospettiva, dando profondità, realismo e umanità alle figure. Dante, uomo del suo tempo, con la sua Commedia offrì all’Italia la sua prima lingua letteraria, un toscano che sarebbe poi diventato l’italiano. E gli orizzonti del mondo si stavano ampliando: Marco Polo raggiunse la Cina solo cinque anni dopo la nascita di Dante. Dante non lesse mai il resoconto di viaggio di Marco Polo, ma visse in una società che avvertiva l’apertura del mondo a nuove avventure e sfide — una società in cui i confini intellettuali, artistici e geografici venivano costantemente spinti più lontano.
(Calvino ha fornito alcune definizioni di cosa sia un “classico”. Per lo scrittore del XX secolo, un classico è ciò che tende a relegare gli eventi attuali a rumore di fondo, ma allo stesso tempo non può farne a meno. E ancora, un classico è “ciò che persiste come rumore di fondo anche quando domina il presente più incompatibile.”)
Eppure, Firenze non era solo una città di prosperità: era anche una città dilaniata dai conflitti. Divisa tra Impero e Papato, tra Guelfi e Ghibellini, e ancora tra fazioni interne a ciascuno schieramento. Lo stesso Dante fu vittima di questa turbolenza. Esiliato, condannato a non poter mai più tornare, scrisse gran parte del suo capolavoro vagando di corte in corte. L’esilio lo segnò profondamente: gli diede la distanza necessaria per giudicare la sua città con ferocia, e affinò la sua nostalgia per una Firenze che immaginava più pura, più severa, più virtuosa di quella che aveva lasciato. Nel Paradiso, quando incontra il suo antenato Cacciaguida, il crociato lo avverte che la sua devozione ai valori antichi lo condurrà proprio a questo destino: l’esilio. Dante accettò l’ammonimento, trasformando la propria sofferenza personale in una visione universale del destino umano.
L’esilio, dunque, è anche un’opportunità positiva da cogliere, in un mondo che — già allora — tendeva verso la globalizzazione. (Seneca, secondo Thomas Mann).
Consapevole di essere un exul immeritus dalla sua Firenze, Dante si rende disponibile alla mobilità territoriale e ai continui cambi di mecenate. Il job rotation non lo spaventa; nel Convivio si definisce come un “nocchiero senza vela e senza governo”, spinto da venti più forti e dalla povertà del suo tempo.
Allo stesso tempo, anche il papato era impegnato nella propria battaglia. Bonifacio VIII, che nel 1300 istituì il concetto di Giubileo, lottava disperatamente per la sopravvivenza del potere temporale della Chiesa. Fu un momento di confronto straordinario tra forze vecchie e nuove. E anche qui si può intravedere un parallelo con l’oggi: il modo in cui il primato della decisione umana è oggi messo in discussione da nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale.
Ma facciamo un passo indietro. Tra il 1150 e il 1300, il cristianesimo subì una profonda riorganizzazione delle sue mappe mentali, sia sulla terra che nell’aldilà. In una società cristiana come quella dell’Occidente medievale, tutto esisteva contemporaneamente in questo mondo e nell’altro. L’invenzione del Purgatorio fu parte integrante di questa trasformazione profonda. Fino al XII secolo esistevano solo il Paradiso e l’Inferno. Ma, gradualmente, teologi e fedeli iniziarono a immaginare uno spazio intermedio — un luogo in cui i morti potessero purificarsi, dove il tempo funzionava in modo diverso e dove la salvezza poteva ancora essere conquistata.
Jacques Le Goff chiamò questa trasformazione la “nascita del Purgatorio”, una rivoluzione mentale.
Tra il Paradiso e l’Inferno, si apriva ora un luogo nuovo, provvisorio, contrattuale, dove le pene potevano essere mitigate e abbreviate. Le Goff descrisse celebremente il Purgatorio come “il regno dell’interim” (direbbero oggi i lavoratori a contratto, suggerisce Santiago). Era come una montagna, dove le anime avevano un contratto a tempo determinato: nessuno vi rimaneva per sempre, ma nessuno poteva uscirne senza sforzo.
Questa visione rispecchiava perfettamente la logica sociale ed economica del tempo di Dante: un mondo fatto di mercanti, banchieri e corporazioni abituati a termini fissi, obbligazioni e accordi negoziati. Non è un caso che questa idea abbia preso forma proprio nel momento in cui la classe media stava emergendo in Europa. Il concetto di livello intermedio diventa necessario: così come la società stava inventando un ordine sociale intermedio tra nobiltà e contadini — composto da mercanti, artigiani, banchieri e professionisti delle città — allo stesso modo la teologia creava un aldilà intermedio tra Paradiso e Inferno.
Il Purgatorio si impose come terzo luogo (una sorta di Clearing House, o secondo il Modello McKinsey).
Introdusse l’idea di un doppio giudizio: uno immediato, al momento della morte, e uno definitivo, alla fine dei tempi (un po’ come l’elenco dei consiglieri d’amministrazione nella Corporate Governance).
(Minosse e Caronte sono i ricercatori umani)
Dante e Beatrice, invece, sono dei mental coach.
MENTORSHIP
Virgilio come mentore
Questo mentore accompagnerà Dante.
Nel mondo di Dante, Virgilio è più di un padre: chiama il giovane discepolo figlio. È paterno, ma non paternalista, e dimostra che il modo più intelligente per avere successo, per raggiungere un obiettivo, consiste nel prendere a modello il comportamento di chi ha già avuto successo. È un concetto molto semplice…
Il mentore riesce nel compito di re-ingegnerizzare la visione del poeta. Ecco cosa ottiene: riesce a dare a Dante empowerment, potere interiore, fiducia, forza di avanzare.
Beatrice, mentore femminile dotata di intelligenza emotiva
Beatrice guiderà Dante.
È l’emblema dell’amore e, nello spirito dello Stilnovismo, possiede una leadership capace di superare tutto il resto: dal sentimento dell’amore antico nasce un potere straordinario.
Beatrice rappresenta la Teologia, la Scienza della Rivelazione, la Grazia.
E Dante, con la sua immaginazione incomparabile, diede a questa idea una geografia definitiva: una montagna — o meglio una curva gaussiana — nell’emisfero australe, opposta a Gerusalemme, con sette cornici corrispondenti ai sette peccati capitali, dove le anime faticano per purificarsi prima di giungere al Paradiso.
Nel Purgatorio di Dante, la punizione non è mai definitiva. È educativa, correttiva e, soprattutto, piena di speranza, proprio come i principi di un sistema giurisdizionale. Le anime salgono, gradino dopo gradino, verso il Paradiso. Questo processo rifletteva l’esperienza dei contemporanei di Dante, che vivevano in un mondo fatto di contratti, crediti e negoziazioni. Perfino il destino dei morti poteva essere abbreviato grazie ai suffragi, alle messe e alle donazioni.
La solidarietà si estendeva oltre la morte stessa.
Per la Chiesa, tutto ciò era anche un potente strumento di influenza e di reddito.
Il Purgatorio, in breve, era sia una consolazione spirituale per i credenti, sia un sistema pratico che rafforzava il potere istituzionale ed economico della Chiesa.
Il “processo” poteva essere abbreviato grazie ai suffragi, invenzioni dei vivi, a una solidarietà duratura, ai legami stretti tra vivi e morti: testamenti e confraternite.
Poter influenzare la sorte dopo la morte aumentava il potere dei vivi, rafforzando la coesione della comunità.
La solidarietà, infatti, si estendeva anche post-mortem.
Nel frattempo, l’economia fiorentina era in piena espansione. Il XIII secolo fu, come scrisse lo storico Carlo Cipolla, l’epoca dell’“intermediazione finanziaria”. Le rotte commerciali si estendevano da Firenze alla Francia, alle Fiandre e all’Inghilterra. L’industria tessile era al centro di questa espansione, sostenuta anche dall’edilizia, dall’agricoltura e da un settore finanziario sempre più sofisticato. Le fiere commerciali, come quelle della Champagne, divennero nodi centrali degli scambi. Nuove forme di impresa, come la colleganza e la commenda, permettevano di condividere rischi e profitti su lunghe distanze. Per la prima volta, i mercanti potevano investire in viaggi che non intraprendevano di persona, mentre i profitti circolavano attraverso lettere di cambio e lettere di credito. Questa nuova architettura finanziaria pose Firenze all’avanguardia della rivoluzione commerciale europea. La stabilità monetaria era essenziale. Nel 1252, Firenze coniò il fiorino d’oro, mentre a Genova nacque il genovino e a Venezia il ducato.
Il fiorino fiorentino divenne una valuta continentale, accettata in tutta Europa.
Unita alla forza del settore manifatturiero, questa stabilità collocò Firenze e le sue banche al centro del commercio europeo. Fu un momento straordinario, ma anche fragile. Pochi anni dopo la morte di Dante, l’espansione rallentò.
Il XIV secolo portò carestie, instabilità climatica e, soprattutto, la peste nera, che devastò la popolazione e fece crollare la vita economica. Per un breve periodo, i salari aumentarono a causa della scarsità di manodopera, ma le crisi ricorrenti — cattivi raccolti, fallimenti finanziari, disordini politici — ricordarono a tutti la fragilità della prosperità.
Dante non visse abbastanza per vedere la peste, ma la sua opera è intrisa dell’ansia che, anche nei tempi di ricchezza, il disastro fosse sempre dietro l’angolo.
Ed è qui che si manifesta una delle contraddizioni di Dante. Era profondamente scettico verso questa nuova ricchezza.
Nell’Inferno XVI denuncia la “gente nova e i subiti guadagni” di Firenze — le nuove persone e i guadagni improvvisi — che, secondo lui, avevano generato superbia ed eccessi. Dante diffidava dei banchieri e dei mercanti che sembravano arricchirsi troppo facilmente. Non poteva negare il loro ruolo nel sostenere la città, ma ai suoi occhi corrodevano la virtù civica.
Rimpiangeva la sobrietà di un’epoca passata.
Questo rende Dante, in un certo senso, un uomo del passato.
Idealizzava una Firenze fondata sulla virtù civica e faceva fatica ad abbracciare la modernità che esplodeva intorno a lui.
Eppure era anche un uomo del suo tempo, testimone della trasformazione.
Partecipava con passione alla politica.
Osservava da vicino le condizioni economiche e sociali di Firenze.
Le criticava con ferocia.
Condannava gli indifferenti, gli ignavi, coloro che non prendevano mai posizione, riservando loro l’angolo più vile dell’Inferno.
Poteva ammirare Paolo e Francesca, la cui passione era illecita, o Ulisse, la cui ambizione era sconsiderata, perché almeno avevano osato, avevano agito, avevano scelto.
Per Dante, il peccato commesso con intensità o coraggio era, in un certo senso, più ammirabile dell’inerzia.
Era l’indecisione, la viltà, il rifiuto di confrontarsi con la vita, ciò che disprezzava di più.
Dante rappresenta quindi una tensione: tra la nostalgia per un mondo di valori perduto e l’alba della modernità.
All’inizio del Trecento, Firenze stava diventando la capitale economica e culturale d’Europa. La sua ricchezza avrebbe presto alimentato l’Umanesimo e il Rinascimento, attirando artisti, pensatori e mecenati i cui nomi risuonano ancora oggi.
Ma Dante non celebrò mai questa crescita. Il suo schema mentale restava teologico, morale, statico. Non vedeva lo sviluppo come lo vediamo noi: un processo dinamico da gestire e favorire. Per lui, l’ordine andava preservato, non la crescita perseguita.
Guardava al passato, cercando di restaurare ciò che era andato perduto, più che abbracciare ciò che stava arrivando.
Eppure, ironicamente, la sua stessa opera — nella lingua, nella potenza immaginativa, nell’audacia — divenne uno dei motori della nuova epoca che lui stesso faceva fatica ad accettare.
Cosa è diverso, allora, oggi?
Anche noi viviamo in tempi di trasformazione. La nostra società, come quella di Dante, sta attraversando rivoluzioni: l’intelligenza artificiale, la biotecnologia, l’adattamento climatico. Anche noi discutiamo sulla legittimità di nuove pratiche — dalla finanza speculativa alla monetizzazione dei dati. E anche noi oscilliamo tra l’entusiasmo per la novità e la nostalgia per la stabilità. Pensiamo a Bonifacio VIII, che proclamò il Giubileo del 1300 per riaffermare il potere papale: fu un atto di disperazione in un’epoca di cambiamento. E pensiamo alle nostre istituzioni, oggi, che lottano per mantenere la sovranità di fronte ai mercati globali e alle piattaforme digitali.
L’analogia non è perfetta, ma l’eco è inconfondibile: il vecchio equilibrio messo in crisi da nuovi poteri.
Per Dante, erano la Chiesa e l’Impero.
Per noi, sono gli Stati e gli algoritmi, la centralità dell’uomo e l’intelligenza artificiale.
Parlare di Dante e del suo contesto, dunque, significa parlare di una società in profonda trasformazione: espansione economica, conflitto politico, innovazione culturale, invenzione teologica.
Dante assorbì tutto e la sua Commedia divenne lo specchio del suo tempo. Ciò che oggi è diverso è la nostra chiave di lettura, non l’esperienza in sé. Dante giudicava attraverso la teologia; noi giudichiamo attraverso la scienza e la tecnologia. Ma la tensione umana di fondo — tra tradizione e innovazione, tra paura della corruzione e speranza di rinnovamento — resta la stessa. Ecco perché Dante ci parla ancora. Il suo mondo stava cambiando sotto i suoi piedi, proprio come il nostro cambia sotto i nostri.
La sua ansia per le ricchezze improvvise, la sua diffidenza verso la novità, la sua nostalgia per la virtù civica riecheggiano nei nostri dibattiti su globalizzazione, disuguaglianze, tecnologia e cultura.
E se Dante trovò nel Purgatorio la metafora di un’epoca di transizione — un luogo di passaggio, di correzione, di speranza — anche noi possiamo riconoscerci in quell’immagine. Perché viviamo anche noi in un tempo purgatoriale: non dannati, non ancora salvati, ma in lotta, passo dopo passo, per salire verso le stelle. La vera vita di un manager, di un uomo. Il Purgatorio, così come lo immaginava Dante, cattura perfettamente questa condizione. Un luogo di passaggio, in cui il passato viene riconosciuto, ma il futuro rimane aperto. Un regno di prova, di solidarietà, di progresso. In quella visione, possiamo ancora riconoscerci. Guelfi e Ghibellini: i primi intenti a combattere l’Impero, i secondi disposti ad aprirsi ai suoi simboli, ma solo per perseguire i propri interessi. Il vuoto di potere imperiale — che oggi possiamo paragonare all’assenza di un sistema sovranazionale di regolamentazione, o all’assenza di una governance globale — è, per Dante, l’origine dell’anarchia, del disordine e della violenza.
2. Dante, i Peccati Capitali e le Lezioni per i Leader Moderni
Cosa ci insegnano oggi i peccati capitali di Dante sulla leadership? Che l’orgoglio acceca, l’invidia corrode, l’ira distrugge, la pigrizia paralizza e l’avidità isola. Ma anche che ogni peccato contiene una lezione. Nel Purgatorio, i peccati non sono fatali; vengono corretti, trasformati, guariti. Per i leader moderni, questo significa che gli errori non sono la fine della storia, ma l’inizio dell’apprendimento.
Il genio di Dante fu trasformare la teologia in immaginazione, e l’immaginazione in guida per la vita. Per lui, i peccati capitali erano distorsioni del potenziale umano, non forze estranee. Ed è per questo che rimangono utili anche a noi. Per i leader, non sono vizi astratti, ma avvertimenti pratici: non lasciare che l’orgoglio blocchi la cooperazione, non lasciare che l’invidia avveleni la fiducia, non lasciare che l’ira offuschi il giudizio, non lasciare che l’avidità sostituisca lo scopo. E soprattutto, ricorda che anche l’errore può diventare un cammino di crescita.
In questo senso, il Purgatorio di Dante è più di un’invenzione teologica; è una metafora senza tempo per la leadership.
Prima di addentrarci nei peccati stessi, ricordiamo il contesto. Dante colloca i peccati capitali non solo all’Inferno, dove sono puniti eternamente, ma anche nel Purgatorio, dove possono essere corretti e trasformati. Il Purgatorio è un luogo in fieri, in continuo sviluppo, sempre rivolto a qualcosa di migliore, dato che la sua meta finale è il Paradiso. Questa è una potente metafora per la leadership e per la vita.
Hans Urs von Balthasar, il teologo austriaco, scrisse provocatoriamente che “l’Inferno è vuoto.”
Dante ci insegna anche che ogni azione ha conseguenze, sia per analogia (analogia) sia per opposizione (contrappasso). Ogni punizione è una lezione. E nel nostro mondo il principio è lo stesso: ogni decisione comporta un rischio, ogni scelta ha la sua ombra.
Secondo tema: Virtù civica e discipline umanistiche
Il libro che ha ispirato questa discussione sottolinea come la conoscenza specializzata abbia ridotto le virtù civiche e il pensiero critico. Suggerisce che i manager dovrebbero recuperare la saggezza delle discipline umanistiche, della tragedia e della commedia, perché queste non rivelano solo il successo ma anche il fallimento. Dante stesso era immerso nella cultura classica, e la sua Commedia è piena di esempi di come la vita civica possa essere corrotta o rinnovata. La virtù civica non è un lusso, è una necessità. Una società, come un’azienda, non può funzionare se gli individui perseguono solo i propri obiettivi privati senza un senso del bene comune.
Il concetto di squadra è centrale: il successo è condivisione, non solo raggiungimento individuale.
Dante vide Firenze disfarsi quando il fazionismo sostituì la virtù civica, e possiamo vedere gli stessi pericoli quando le corporation privilegiano il profitto rispetto alla responsabilità o i leader cercano potere senza responsabilità. Riscoprire la virtù civica attraverso le discipline umanistiche è un modo per ricordare che la leadership è sempre servizio, mai indulgenza personale.
Terzo tema: Rimpianto e rimorso.
Nel Purgatorio di Dante, il rimpianto è l’inizio della guarigione. Gli errori non sono fatali; sono opportunità di crescita. I leader moderni possono imparare da questo. In termini aziendali, potremmo chiamarlo un “processo di rimedio”, ma il principio è lo stesso: trasformare il rimpianto in una seconda possibilità. Come sottolinea il libro, il rimpianto riguarda il non aver colto un’opportunità. Il Purgatorio riguarda il rimedio, non la distruzione. Aristofane, nelle Rane, scrisse che per navigare sul mare un capitano deve aver sopportato tempeste. Così anche i leader devono sopportare i fallimenti se vogliono guidare gli altri con saggezza. Rimorso e rimpianto, quando riconosciuti, diventano strumenti potenti per il miglioramento personale. L’organizzazione che impara dagli errori, invece di nasconderli, diventa più forte. Il leader che ammette i propri errori crea una cultura di fiducia e resilienza.
Quarto tema: Orgoglio, o hybris.
L’orgoglio, per Dante, è la radice di tutti i peccati. È il peccato di Adamo ed Eva, che vollero essere come Dio. Nel Purgatorio, gli orgogliosi sono piegati in basso, imparando l’umiltà. L’orgoglio rimane una delle grandi tentazioni della leadership. Si manifesta come arroganza, disprezzo, o rifiuto di riconoscere il talento degli altri. Dal palcoscenico globale — dove il cosiddetto “Nord Globale” fatica ad accettare il ruolo crescente di Cina e India — fino alle sale del consiglio aziendale, l’orgoglio acceca i leader alla realtà. Gli esempi di Dante sono istruttivi: Cimabue, il grande pittore, fu superato da Giotto, e Giotto da Masaccio. La grandezza è sempre temporanea; qualcuno arriverà dopo di te con più talento, nuove tecniche e una visione fresca. La leadership, quindi, non riguarda l’attaccamento alla superiorità, ma il riconoscimento del valore ovunque esso emerga. Il leader orgoglioso si isola; il leader umile costruisce un’eredità.
Quinto tema: Invidia.
Pochi peccati sono così corrosivi per le organizzazioni quanto l’invidia. Nel Purgatorio di Dante, gli invidiosi hanno gli occhi cuciti, perché l’invidia è una distorsione della visione: gioire delle disgrazie altrui anziché celebrare i loro successi. Il libro distingue tra “arrampicatori” e “alti risultati”. Gli arrampicatori avanzano con politica e manipolazione; gli alti risultati con talento e impegno. L’invidia favorisce i primi e punisce i secondi. I leader moderni devono essere vigili nel distinguere tra atteggiamento e vera competenza.
Ma l’invidia ha assunto anche una nuova forma: quella intergenerazionale. Per la prima volta nella storia, le generazioni più giovani spesso possiedono più conoscenze e competenze tecniche dei loro predecessori. Programmazione, modellazione dati, alfabetizzazione digitale — questi sono i linguaggi del futuro. Le generazioni più anziane portano saggezza, esperienza e ispirazione, ma devono accettare che i colleghi più giovani hanno un valore aggiunto da offrire. Se l’invidia contrappone queste generazioni, le organizzazioni ristagneranno. Se prevalgono umiltà e cooperazione, prospereranno. La sfida per i leader è creare ponti: valorizzare l’esperienza dei senior e potenziare l’innovazione dei junior. Il risultato non è conflitto, ma sinergia, una comunità in cui ogni età contribuisce al bene comune.
Gli economisti distinguono tra invidia distruttiva, che gioisce delle disgrazie altrui, e invidia costruttiva, che stimola la competizione. Dante conosce entrambe. Nel Purgatorio XIII presenta Sapia di Siena, che si rallegrava della sconfitta dei suoi concittadini — un’invidia distruttiva che corrode la comunità. Ma c’è anche un’altra invidia, quella che spinge le persone a emulare l’eccellenza, a sforzarsi per raggiungere ciò che altri hanno conquistato. Come osservò John Maynard Keynes secoli dopo, i mercati non possono essere lasciati all’invidia da sola, ma una sana competizione può stimolare l’innovazione. Anche l’invidia, quando purificata, può diventare una forza per il progresso: ci spinge a salire più in alto, non abbattendo gli altri, ma aspirando ai loro risultati. I leader devono quindi incanalare l’invidia nell’emulazione, non nel risentimento, trasformando la rivalità in una cultura dell’eccellenza.
Sesto tema: Ira e serenità.
Dante descrive gli iracondi che vagano in una nube di fumo, accecati dalla rabbia. È un’immagine che appare contemporanea. Oggi viviamo in un mondo di rabbia — rabbia politica, indignazione sui social media, persino “rabbia da aereo.” La rabbia offusca il giudizio e distrugge la fiducia. L’antidoto è la serenità, la capacità di controllare le emozioni e di stabilire un tono calmo. I leader che incarnano la serenità creano ambienti di stabilità. I Romantici chiamavano questa capacità “ironia,” la facoltà di riconoscere i propri limiti e sorridere delle proprie pretese. In un mondo di accelerazione costante, obiettivi irrealistici e pressione a “far accadere tutto,” la serenità diventa una forza controcorrente. Dopo la pandemia, con la crescita della frustrazione e dell’impazienza nelle società, la necessità di una leadership calma è diventata ancora più evidente. Un leader che rimane composto mentre gli altri perdono il controllo non solo previene il caos, ma stabilisce anche uno standard di resilienza e equilibrio che permette alle organizzazioni di navigare nelle tempeste.
Darcy, educazione, prevenire malintesi.
Settimo tema: Il paradosso della generosità.
La generosità sembra l’opposto dell’avarizia, ma come ci ricorda Santiago Iñiguez, la generosità ha sempre un elemento di transazione. Marcel Mauss, nel suo celebre libro Il dono, ha mostrato che donare non è mai un atto puramente altruistico: i regali creano obblighi, aspettative e legami. Gli insegnanti dedicano tempo nella speranza che gli studenti rispondano con impegno. I filantropi donano ricchezza nella speranza di lasciare un’eredità. In questo senso, la generosità non è ingenua: è un investimento sociale. I leader che comprendono questo paradosso possono trasformare la generosità in una strategia. Sostenere l’educazione, fare da mentore ai colleghi più giovani o finanziare l’innovazione possono sembrare atti di puro dono, ma generano anche lealtà, creatività e ritorni a lungo termine. Il vero potere della generosità risiede nella sua reciprocità: ciò che diamo ritorna trasformato, rafforzando comunità e organizzazioni. Vista così, la generosità non è in contrapposizione all’efficienza; è uno dei modi più efficaci per costruire un successo sostenibile.
Avarizia e il dibattito economico.
Dante simboleggiava l’avidità nella lupa che gli blocca il cammino all’inizio della Commedia. Per lui, gli avidi erano semplicemente spregevoli: ossessionati dalla ricchezza, tradivano sia Dio che la società. Ma gli economisti fanno delle distinzioni. C’è l’avarizia di uno Scrooge, che accumula ricchezze senza scopo; ma c’è anche la ricerca di interessi legittimi, come descrisse Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo la cena, ma dal loro interesse personale.” In altre parole, la ricerca dell’interesse personale, se condotta onestamente, serve anche la comunità. Dante condannò l’avidità senza sfumature, ma oggi riconosciamo che i mercati si basano sull’interesse personale per generare prosperità.
La sfida, quindi, è distinguere tra avidità che isola e corrode, e ambizione che costruisce e sostiene. Un leader che accumula risorse, come gli usurai di Dante seduti sulla sabbia ardente dell’Inferno, non contribuisce alla comunità. Ma un leader che investe risorse, prende rischi e crea valore per gli altri trasforma l’interesse personale in beneficio collettivo. La lupa di Dante è ancora con noi, ma il compito della leadership moderna è domarla — incanalare l’ambizione lontano dall’avarizia distruttiva verso la prosperità condivisa.
Questo principio era già stato intuito da Aristotele, che Dante conosceva bene. Tutti dipendono dagli altri; la società è una rete di interdipendenza. Il commercio giova a entrambe le parti, anche se i pensatori medievali spesso temevano più la sua equità che la sua efficienza. Dante condannò l’avidità, ma l’intuizione economica rimane: quando gli interessi sono perseguiti onestamente, la comunità prospera.
Dante stesso, uomo del suo tempo, era coinvolto nel dibattito sull’usura. Per Tommaso d’Aquino e la filosofia aristotelica, l’usura era un peccato contro natura, “denaro che genera denaro.” Chiedere interessi significava vendere ciò che non si possedeva: il tempo stesso. Era condannata come sterile, improduttiva e ingiusta. Ma il francescano Pietro di Giovanni Olivi, nel suo Tractatus de usuris, aprì la porta a una diversa interpretazione. Sosteneva che potesse esistere un “interesse giusto” quando compensava il rischio di capitale nelle attività commerciali, perché il commercio stesso era una forma di lavoro e creazione. Dante, però, collocava gli usurai all’Inferno, incatenati alle loro borse, con gli occhi fissi sul denaro che amavano più di Dio. Eppure, l’ironia è ineludibile: viveva in una Firenze costruita sul credito, alimentata da famiglie bancarie che finanziavano il commercio in tutta Europa.
Ancora una volta, vediamo in Dante la tensione tra legge eterna e pratica quotidiana. Egli giudicava secondo gli standard della filosofia scolastica, ma viveva nella realtà di una società capitalista emergente. Lo stesso paradosso ci riguarda oggi: condanniamo la speculazione, ma ci affidiamo ai mercati; diffidiamo del debito, ma costruiamo la prosperità sul credito. La lotta di Dante per conciliare morale e finanza è ancora la nostra.
Beni materiali e spirituali.
Dante distingueva anche tra beni che si riducono quando condivisi e quelli che invece crescono. Guido del Duca, nel Purgatorio XIV, ammette la sua invidia per i beni mondani — perché quando li condividi, si riducono. Se condivido il mio pollo con te, ne rimane solo metà. Ma i beni spirituali sono diversi: l’amore di Dio, la conoscenza e la gioia si moltiplicano quando condivisi. Paul Samuelson, secoli dopo, formalizzò questa distinzione definendo beni “rivali” e “non rivali.” In questo Dante era avanti: capiva che la ricchezza materiale divide, mentre quella spirituale unisce.
La lezione per i leader è semplice ma profonda. Le organizzazioni che competono solo per il guadagno materiale rischiano di cadere nella rivalità e nell’esclusione, dove la quota di ciascuno si riduce. Ma quelle che investono in beni non rivali — conoscenza, cultura, fiducia, solidarietà — scoprono che questi si moltiplicano quanto più sono condivisi. L’intuizione di Dante è che la vera abbondanza non sta nell’accumulare ciò che si può consumare, ma nel coltivare ciò che cresce donandolo».
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