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l’ira di Meloni e il dietrofront. Palazzo Chigi: «Inopportuno»


Prima la bufera. Con le opposizioni sul piede di guerra e una Giorgia Meloni furibonda per una scelta ritenuta «inopportuna». Al punto che il governo sta già lavorando a un provvedimento per evitare il ripetersi di casi simili. Poi, invece, il dietrofront. Non aumenterà, lo stipendio di Renato Brunetta da presidente del Cnel. Dopo giorni di polemiche, l’ex ministro dei governi Berlusconi e Draghi passato nel 2023 a guidare il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro annuncia il ripensamento. E revoca «con effetto immediato» l’adeguamento che avrebbe portato il suo compenso da 240 a 311mila euro all’anno. «Non voglio in alcun modo che dall’applicazione legittima di una giusta sentenza della Corte Costituzionale derivino strumentalizzazioni in grado di danneggiare la credibilità dell’istituzione che presiedo», prova a metterci una pietra sopra l’ex esponente di Forza Italia.

LE POLEMICHE

Uno stop che però potrebbe non bastare a far spegnere l’incendio divampato attorno al numero uno del Cnel, l’organo consultivo previsto dalla Costituzione per dare pareri e proporre leggi in materia economica e sociale, assurto in passato a simbolo della sprecopoli pubblica (tanto che nel 2016 Matteo Renzi aveva provato a cancellarlo con la riforma costituzionale, poi bocciata dal referendum). E infatti le opposizioni non mollano la presa: Brunetta venga a riferire in parlamento, insistono dal Pd, chiedendo «l’immediata convocazione» del presidente del Cnel. A far scoppiare il caso, rivelato dal Domani, era stata la decisione di Villa Lubin di recepire la sentenza della Consulta del luglio scorso. Quella che aveva fatto saltare il tetto agli stipendi dei manager pubblici da 240mila euro annui. Ripristinando, di fatto, compensi più alti per i vertici, compreso quello di Brunetta. Immediato l’affondo di Renzi: «Il Cnel ha deliberato un aumento di 1,5 milioni per i vertici e di 200mila euro per lo staff. Giorgia Meloni non trova i soldi per aumentare gli stipendi al ceto medio ma li trova per il poltronificio di Brunetta». Seguito, l’ex premier, dalla gran parte degli altri leader dell’opposizione. «Niente salario minimo, ma aumentano gli stipendi del Cnel e di Brunetta», tuona il pentastellato Giuseppe Conte. «È lo stesso Brunetta che si è opposto al salario minimo», affonda anche Nicola Fratoianni da Avs. «Uno schiaffo ai lavoratori», attacca dal Pd Andrea Casu.

A poco valgono le repliche del Consiglio, che parla di «mero adempimento» della sentenza della Consulta e sottolinea la «condotta di assoluta regolarità e legittimità» dell’organo. A sera, a metterci il carico da novanta ci pensa la premier Giorgia Meloni. Che fa trapelare tutta la sua «irritazione» per la decisione di Brunetta, basata su una sentenza della Consulta «non condivisibile». Così come è «inopportuna», per Meloni, la scelta di adeguarsi il compenso. Duro anche il ministro Paolo Zangrillo: «Vorrei essere chiaro, non c’è nessuno che sia autorizzato ad alzarsi lo stipendio per il fatto che non esiste più il tetto». Per il titolare della Pa, «ci sono soltanto un numero esiguo di dipendenti pubblici che possono ritornare automaticamente alla retribuzione che percepivano prima del 2014». Una decina, quelli che già prima guadagnavano di più.

Due prese di distanza pesanti. Che contribuiscono a far innescare la retromarcia. «Come presidente del Cnel, organo di rilievo costituzionale chiamato a dare voce e rappresentare le parti sociali, non voglio in alcun modo che dall’applicazione legittima di una giusta sentenza della Corte Costituzionale derivino strumentalizzazioni in grado di danneggiare la credibilità dell’istituzione che presiedo», fa sapere a sera Brunetta. «Per queste ragioni – conclude – provvederò a revocare con effetto immediato la decisione».

LA CIRCOLARE

Ma il caso, come si diceva, potrebbe non chiudersi qui. Perché il governo è deciso a evitare che casi simili possano ripetersi. Della materia si sta occupando in prima persona Zangrillo: «Stiamo lavorando insieme al ministero delle Finanze – annuncia – per definire una disciplina che incida nel graduare le retribuzioni dei dirigenti in ragione delle performance e del contenuto di ruolo di ciascuno». Tradotto: un conto sono gli adeguamenti automatici, che toccheranno solo a una decina di grand commis dello Stato. Mentre per tutti gli altri l’idea è quella di intervenire con una circolare o un dpcm che stabilisca le nuove regole di riferimento. Con un intento chiaro: evitare che ogni dirigente decida da sé. E decida, magari, di aumentarsi lo stipendio.


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