Bloccare l’aumento di tre mesi dell’aumento dell’età di pensionamento, ma contenendo al massimo l’impatto sui conti pubblici. Sarà queìsto uno dei rebus principali che il governo dovrà sciogliere in vista della prossima manovra. Nei ministeri il lavorio tecnico è iniziato e si cominciano a valutare le prime soluzioni.
L’intenzione di fondo è “congelare” per due anni l’aumento di tre mesi dell’età di pensionamento che dovrebbe scattare nel 2027 a causa dell’adeguamento automatico alla speranza di vita. L’Inps ha già fornito le sue valutazioni sui costi di questo intervento, che oscillerebbero attorno al miliardo di euro l’anno. Una delle ipotesi che si stanno valutando per “calmierare” in parte questo costo, sarebbe quella di introdurre delle nuove mini-finestre di uno o due mesi.
Come funzionerebbero? L’età per il pensionamento di vecchiaia resterebbe ferma a 67 anni fino al 2029 (non salirebbe cioè a 67 anni e tre mesi), ma una volta maturati i requisiti, bisognerebbe attendere un altro mese (al massimo due) prima di ricevere l’assegno. Un sistema già utilizzato dal governo. Per esempio per Quota 103, il pensionamento con 62 anni di età e 41 di contributi. Chi usa questo scivolo (aperto fino alla fine di quest’anno), prima di ricevere l’assegno deve attendere 7 mesi se è un dipendente privato e 9 mesi se è un dipendente pubblico. Anche per la pensione anticipata contributiva, quella che permette di lasciare il lavoro con 42 anni e 10 mesi di contributi a prescindere dall’età (che diventano 41 anni e 10 mesi per le donne), è prevista una finestra di 3 mesi (4 per i dipendenti degli enti locali).Si tratta insomma, di un sistema già rodato e che potrebbe essere ulteriormente aggiustato.
La riforma della previdenza. Ma il pacchetto previdenziale si preannuncia più articolato. C’è, per esempio, da decidere il destino di Quota 103, Opzione Donna e dell’Ape sociale, tutte misure che andranno a scadenza alla fine dell’anno. L’intenzione del governo sarebbe quella di accantonare il sistema delle Quote, anche perché dopo la stretta dello scorso anno, non ha avuto un grande successo (oltre alle finestre ha sicuramente pesato il ricalcolo contributivo dell’assegno e il tetto agli importi). E lo stesso potrebbe valere per Opzione Donna e per l’Ape sociale. La Lega, attraverso il sottosegretario al lavoro Claudio Durigon, spinge per introdurre un meccanismo di flessibilità che permetta a tutti i lavoratori, pubblici e privati, di poter lasciare in certe condizioni a 64 anni, utilizzando allo scopo anche il Tfr e, per chi ce li ha, i versamenti ai fondi pensione integrativi.
Gli interventi. Un primo intervento in questa direzione c’è stato nella scorsa manovra che ha aperto alla possibilità, per i lavoratori interamente “contributivi”, di uscire dal lavoro a 64 anni d’età attraverso il cumulo della previdenza obbligatoria con quella complementare in modo da raggiungere la soglia di 3 volte l’assegno minimo (vale a dire 1.616,04 euro al mese), necessaria per poter andare in pensione. Gi anni minimi di versamenti necessari a lasciare il lavoro, che nel sistema contributivo era fissata a 20 anni, è stata elevata a 25 anni (e nel 2030 salirà ancora fino a 30 anni). Tra le ipotesi allo studio c’è quella di dare questa possibilità anche a coloro che sono nel sistema misto e che abbiano, come nel caso dei “contributivi” almeno 25 anni di versamenti all’Inps. Si tratta comunque di una soluzione sulla quale la Ragioneria generale dello Stato avrebbe manifestato qualche dubbio.
I conteggi. Così come la stessa Ragioneria, nel suo ultimo rapporto sul sistema previdenziale italiano, ha sottolineato come bloccare l’adeguamento dell’età di pensionamento, avrebbe degli effetti di riduzione degli assegni. I meccanismi di stabilizzazione automatica del sistema previdenziale italiano sono infatti due: uno che aumenta l’età all’aumentare della vita media (facendo salire anche gli assegni grazie ai maggiori contributi versati), e l’altro che riduce le pensioni tramite i coefficienti di trasformazione. Questo secondo meccanismo serve ripartire il montante dei contributi su un tempo più lungo in cui il lavoratore sarà in pensione. Ma se il primo meccanismo si blocca e il secondo no, l’effetto è una riduzione degli assegni che la Ragioneria ha quantificato in un taglio del 9 per cento.
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