Commenti e retroscena del panorama politico
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Gli esiti di Genova e Ravenna si possono estendere su scala nazionale? Una formula, che come abbiamo visto, funziona a livello locale, ma che a livello nazionale rappresenta uno dei nodi più intricati. Alle amministrative l’opposizione ha portato a casa risultati importanti: il centrosinistra extralarge ha vinto al primo turno, in un momento particolarmente delicato per la maggioranza, a metà legislatura e impegnata a proporre l’abbassamento dal 50% al 40% della soglia per l’elezione. A Genova, Salis ha sconfitto il candidato del centrodestra Pietro Piciocchi, figura di continuità con l’ex sindaco Marco Bucci, oggi governatore della Liguria. A Ravenna, come ad Assisi, il campo larghissimo ha portato sindaci espressione di una coalizione che va dal Movimento 5 Stelle ad Alleanza Verdi e Sinistra fino ai centristi di Azione, Italia Viva e Più Europa.
La differenza sostanziale è che, a livello locale, queste forze riescono a unirsi “contro” un avversario, il centrodestra. A livello nazionale, invece, non solo manca un’agenda condivisa, ma anche una direzione chiara che possa coordinare l’azione comune. Ogni partito ha una linea diversa e spesso nemmeno al proprio interno vi è coesione. È noto, ad esempio, come il Partito democratico si sia spaccato recentemente sul tema del riarmo, con contrapposizioni tra l’ala progressista e quella più vicinia alla segretaria dem. Su questo punto i 5Stelle hanno invece mantenuto una posizione netta e oppositiva. Sostanzialmente l’opposizione è frammentata a causa di più identità e personalismi e non riesce ad avere temi unitari per contrastare la maggioranza. Un’altra difficoltà evidente è l’incompatibilità tra alcuni dei protagonisti. È difficile immaginare Carlo Calenda seduto allo stesso tavolo di Giuseppe Conte, ancor più con Matteo Renzi. Le fratture sono profonde e consolidate. Conte leader del M5s, ha costruito la sua identità politica attorno a delle misure come il reddito di cittadinanza, superbonus, che agli occhi dei due centristi sono utopie. Calenda ha più volte definito l’ex premier “inadatto” a guidare il Paese, accusandolo di aver danneggiato l’Italia con le sue politiche economiche. Renzi, poi, non si è limitato solo alle critiche. È stato quello che ha fatto cadere il governo Conte II. Le sue accuse toccavano punti centrali, dal Recovery fund, il controllo sui servizi segreti, la mancanza di collegialità nel governo. Da allora, il gelo tra i due è rimasto intatto. Ma anche tra Renzi e Calenda non scorre buon sangue. Prima delle elezioni ci avevano provato, almeno sulla carta a costituire un’alleanza. Era nata come un’alternativa liberale e centrista con il Terzo polo, ma l’esito lo conosciamo già, i due leader da alleati sono diventati nemici dichiarati.
Quello che doveva essere un fronte comune non è diventato altro che un campo di battaglia personale e politico, con accuse reciproche e strategie divergenti.
Due figure troppo simili che hanno finito per entrare in collisione. Calenda ha raccontato che quegli accordi con Renzi sono stati “i peggiori mesi della sua carriera politica”, e da lì in poi non si sono più risparmiati colpi, neanche personali.
Ma il vero vaso di Pandora si apre sulla questione della leadership. Se davvero si riuscisse a dare forma al campo larghissimo su scala nazionale, chi dovrebbe guidare il governo? Giuseppe Conte e Matteo Renzi hanno entrambi già ricoperto il ruolo di Presidente del Consiglio, un eventuale ritorno dei due a Palazzo Chigi è difficile, non solo per il loro conflitto personale, ma anche perché significherebbe escludere uno dei due e riaprire tensioni insanabili all’interno della coalizione. Alcuni ipotizzano, che potrebbero ricoprire la carica di vicepremier o di uno dei dicasteri. Tuttavia, l’eventualità di affidare la Farnesina al leader dei pentastellati si assottiglia, in quanto potrebbe non ottenere il beneplacito del Quirinale. Le sue posizioni, considerate da molti ambigue nei confronti della Russia, non sembrano compatibili con la linea atlantista ed europeista, che il Colle vuole che l’Italia garantisca in un contesto internazionale così instabile.
Resta sul tavolo l’ipotesi che a correre per Palazzo Chigi possa essere Elly Schlein. È la segretaria del partito principale della coalizione. Ma la sua figura, non gode ancora della solidità che hanno permesso a Giorgia Meloni di rivestire questo ruolo. Schlein non ha mai ricoperto incarichi di governo e non è scontato che personalità come Conte e Renzi, due ex premier, accettino di farsi da parte, senza avanzare pretese o porre condizioni. Un’altra ipotesi è quella di far subentrare una figura terza, fuori dai partiti, in grado di tenere insieme le diverse anime della coalizione. Qualcosa di simile a quanto accadde con Giuseppe Conte nel 2018, scelto come presidente del Consiglio per superare lo stallo tra Salvini e Di Maio. In definitiva, il problema del campo larghissimo non è solo vincere le elezioni. È costruire una maggioranza coesa e capace di governare. Riuscire a trovare una figura che sia in grado di mettere insieme posizioni distanti, dai pacifisti di AVS agli europeisti centristi, dai pentastellati contrari alle grandi opere agli ex renziani pro sviluppo e mercato. Perché il rischio è che, se riuscissero a vincere le elezioni, l’alleanza si trasformi in una fragile convivenza litigiosa, destinata a crollare alla prima scossa.
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