C’è un filo rosso nel Rapporto annuale dell’Istat che tiene insieme tutti gli altri: l’inverno demografico. Un inverno gelido, ghiacciato. I cui effetti sono sempre più evidenti. Lo scorso anno le nascite sono crollate fino a segnare un nuovo record negativo, solo 370 mila culle. Ci sono molti più morti, 651 mila, che nati. Nemmeno l’immigrazione riesce a portare in positivo il saldo. Dal 2008 a oggi il Paese ha 2,4 milioni di donne feconde in meno. Meno donne che fanno meno figli, con la fecondità scesa anch’essa al minimo mai segnato: 1,18 figli. Con questi numeri la crisi demografica è difficilmente reversibile. La crisi della natalità si intreccia con i mutamenti familiari. I nuclei diventano sempre più piccoli: cresce il numero di persone che vivono da sole, aumentano le libere unioni, le famiglie monogenitore e quelle ricostituite, mentre si riduce la presenza di quelle con figli, ormai ridotte a una su tre. L’invecchiamento della popolazione continua. Circa un quarto della popolazione (24,7 per cento) ha almeno 65 anni. Tra questi, cresce in particolare il numero di persone di 80 anni e più (4 milioni e 591mila), che superano ormai quelle che hanno fino a dieci anni. I cittadini stranieri e i nuovi italiani sono l’unico segmento in crescita della popolazione: in tutto sono 5,4 milioni, il 9,2 per cento della popolazione.Un discorso a parte va fatto sulle condizioni economiche delle famiglie. Le retribuzioni contrattuali reali hanno recuperato una parte di quanto perso durante la fiammate dell’inflazione, ma a fine 2024 risultano ancora inferiori del 10,5 per cento rispetto a quelle dell’inizio del 2019. Ma se si guarda alle retribuzioni di fatto, quelle che tengono conto anche dei contratti integrativi, la perdita si limita al 4,4 per cento. Ed ancora, se si guarda al reddito da lavoro in generale (compresa l’occupazione indipendente) e si allarga lo sguardo agli ultimi 20 anni il singolo occupato ha perso il 7,3 per cento del potere d’acquisto ma nonostante questo calo tra il 2004 e il 2024 il reddito familiare equivalente «è aumentato del 6,3 per cento, grazie: ai cambiamenti demografici, in particolare la riduzione della quota delle famiglie con figli; all’aumento del numero di componenti occupati; alla maggior diffusione della proprietà della casa di abitazione». Proviamo a tradurre. Il reddito della singola persona occupata si è ridotto. Ma chi mette su famiglia ha più soldi a disposizione proprio perché ha meno figli a carico. Sembra insomma ci sia una correlazione tra la riduzione dei redditi e il calo delle nascite. Ma probabilmente è solo una delle concause dell’inverno demografico. L’invecchiamento della popolazione ha anche altri effetti collaterali. Si esce sempre più tardi di casa. Oltre il 60 per cento dei figli, lascia il nido materno dopo i 34 anni. Poi si studia più a lungo e si entra più tardi nel mercato del lavoro. Le riforme pensionistiche, per fronteggiare i costi dell’invecchiamento, trattengono più a lungo le persone nel posto di lavoro ritardando il pensionamento. Così la classe di età che più ha alimentato la ripresa occupazionale è quella degli over 50.
Istat, Italia sempre più vecchia e povera: gli over 80 sono più dei bambini, 97 mila laureati lasciano il paese in 10 anni. Il rapporto
IL PASSAGGIO
Quasi un quarto della popolazione (il 23,1 per cento) è un rischio di povertà o esclusione sociale (redditi inferiori al 60 per cento di quello mediano, deprivazione materiale o bassa intensità lavorativa), percentuale in lieve aumento (+0,3 punti) sul 2023. Un dato che nel Sud raggiunge il 39,8 per cento con quasi 4 persone su dieci con un rischio di disagio economico. Il rischio in media sale per gli individui che vivono in famiglie nel quale il principale percettore di reddito ha meno di 35 anni. Sono a rischio soprattutto le famiglie dove sono stranieri e quelle nelle quali c’è stato lo scioglimento di un’unione o un decesso. Le difficoltà economiche si ripercuotono poi sulla salute: nel 2024 un italiano su 10 (il 9,9 per cento) ha riferito di avere rinunciato a fare visite o esami specialistici. A pesare non sono però state solo le condizioni economiche, ma anche le lunghe liste di attesa della Sanità pubblica. L’altro fenomeno che non sembra per ora interrompersi, è l’emigrazione verso l’estero di lavoratori italiani. In dieci anni il Paese ha perso 10 mila laureati. Un dato che potrebbe essere intrecciato con quello della Sanità. Sempre più spesso la strada dell’estero è presa da medici e infermieri italiani, alla ricerca non solo di retribuzioni migliori, ma soprattutto di condizioni di vita meno esasperanti rispetto a quelle di alcuni reparti ospedalieri.
Un ultimo dato. La crisi demografica rischia di lasciare senza eredi una piccola impresa su tre. Anche questo è un problema da non sottovalutare.
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