Anche per andare nello spazio, serviranno mezzi sempre più ecologici ed economici, i cui costi di manutenzione siano ridotti ed il riutilizzo garantito. Questi gli obiettivi del progetto Amaca, che in tre anni di ricerca ha compiuto passi significativi per lo sviluppo di veicoli in grado di effettuare in sicurezza missioni spaziali multiple senza aver bisogno di sofisticate misure di ispezione e manutenzione. Ne abbiamo parlato con Alessandro Airoldi del dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali del Politecnico di Milano, responsabile scientifico del progetto.
Di quali veicoli vi siete occupati?
«Di navicelle per il trasporto passeggeri o senza piloti per missioni orbitali e planetarie, che devono rientrare nell’atmosfera terrestre. Nel rientro uno dei problemi noti sono le temperature estreme fino a 2000 gradi, perché nell’attraversamento dell’atmosfera la velocità della navicella e l’attrito creano un plasma incandescente. Queste condizioni sono analoghe a quelle che si trovano nei sistemi propulsivi, nei motori a razzo, solo che nel caso delle navicelle come l’Orion e lo Space Shuttle, le temperature devono essere sostenute per diversi minuti per proteggere gli occupanti. Questo richiede tecnologie specifiche di protezione, come gli scudi termici esterni dello Space Shuttle, la cui struttura interna era in alluminio come quella degli aerei e non poteva sopportare temperature superiori a poche centinaia di gradi».
Cosa accade ad una navicella al termine di una missione?
«La tendenza attuale è quella di una sempre maggiore riutilizzabilità. Lo Space shuttle era noto per essere un veicolo riutilizzabile, ma in realtà doveva essere sottoposto a revisioni e disassemblaggi molto costosi: siamo ancora lontani dal trasporto aereo, dove ci sono procedure relativamente semplici di controllo e di manutenzione che garantiscono l’affidabilità dei mezzi. L’obiettivo è aumentare sempre di più la possibilità di riutilizzare questi veicoli spaziali, senza revisioni costosissime».
Quindi abbattere i costi di manutenzione?
«Fondamentalmente sì, questa è una tendenza di base come nel Falcon 9 di SpaceX, ma c’è anche un discorso di cosa si intende per riutilizzabile; l’obiettivo è consentire l’accesso allo spazio attraverso veicoli che possano venire revisionati con facilità e utilizzati in maniera sicura senza costi esorbitanti. Uno dei materiali che abbiamo studiato è stato selezionato per una navetta ESA, che sarà in grado di portare e compiere degli esperimenti nella spazio in maniera automatica e potrà essere riutilizzata 4, 5 e più volte, senza bisogno di revisioni».
Una ricerca che ha messo insieme diverse competenze italiane. Quali?
«E’ un progetto finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana per ingegnerizzare la progettazione di questi veicoli attraverso procedure sempre più standardizzate e affidabili. Abbiamo messo insieme diverse competenze, come l’Istituto Superiore per lo Sviluppo e la Sostenibilità delle Materie Ceramiche di Faenza, zona che ha nei materiali ceramici una grande tradizione. L’altro produttore è uno spin-off dell’Università di Milano, Petroceramics, che ha lavorato per anni nell’ambito dei materiali per sistemi frenanti ad altissime prestazioni, anche per vetture da competizione. Queste capacità produttive si sono unite agli studi sui veicoli spaziali del Centro Italiano di Ricerche Aerospaziali e alle competenze del Dipartimento di Scienza e Tecnologia Aerospaziale del Politecnico di Milano sui materiali compositi».
Che caratteristiche ha il materiale progettato?
«Di base è ceramica, in teoria molto rigida e resistente, ma anche estremamente fragile, quindi non si può usare in maniera affidabile su un velivolo. Tuttavia, attraverso tecnologie molto complesse, si realizzano ceramiche che sono rinforzate da fibre di carbonio, analoghe a quelle usate nei materiali compositi usati per le biciclette, per automobili e Formula 1. In questo modo i materiali diventano estremamente resistenti, in grado di sopportare dei danneggiamenti ed altissime temperature, senza bisogno di protezioni aggiuntive. Ci sono due tipi di materiali, entrambe ceramiche rinforzate con fibre di carbonio prodotte all’interno del progetto, uno più convenzionale, ma ottenuta con grande attenzione alla riduzione dei costi di produzione e l’altro molto più innovativo chiamato UHT CMC, Ultra High Temperature Ceramic Matrix Composite, sviluppato dal CNR di Faenza con prestazioni elevate nella capacità di resistenza alle alte temperature».
Come sono impiegati sul velivolo?
«Nella struttura dello scafo della navicella. Questi materiali hanno caratteristiche straordinarie, ma hanno un comportamento molto complesso che abbiamo indagato per comprendere l’entità e le conseguenze di un daneggiamento. Lo scopo del progetto è stato quello di verificare in maniera sperimentale cosa potrebbe succedere in presenza di urti ed in seguito all’esposizione ad ambienti estremi. Abbiamo svolto test nel Centro Italiano di Ricerche Aerospaziali le gallerie al plasma, in cui è possibile ripristinare le temperature di rientro della navicella».
Ed il risultato?
«Questi materiali subiscono alterazioni perfettamente controllabili, anche perché abbiamo sviluppato dei modelli digitali della struttura che permettono di effettuare test virtuali dettagliati, utili per calcolare margini di sicurezza anche in condizioni previste o imprevedibili: le strutture permettono di superare queste fasi critiche in maniera sicura, riducendo la manutenzione fra una missione e l’altra».
Saranno utilizzati dall’ESA?
«Il materiale sviluppato da Circa e da Petroceramics è stato selezionato dall’ESA per la navetta Space Rider, che verrà lanciata nel 2025, mentre il Politecnico ha studiato e migliorato le procedure di progettazione per i veicoli realizzati con questi materiali. Il materiale più innovativo ha ancor bisogno di ulteriori studi per diventare una realtà utilizzabile per parti di grandi dimensioni».
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