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«Elly scappa, Con noi l’Italia conta di più»


Stavolta non fa il gesto di calzare l’elmetto, ma idealmente lo indossa eccome: obiettivo politiche del 2027, «perché questo governo resterà in carica fino a fine legislatura, fatevene una ragione». Soprattutto, Giorgia Meloni dal palco di Atreju si prenota per il prossimo giro di giostra: il bis a Palazzo Chigi, perché al netto dei «weekend sacrificati» e delle «notti insonni» sembra quasi averci preso gusto, o quanto meno — è il messaggio che consegna — di lasciare il timone del Paese alla «sinistra rosicona» e che «porta sfiga» non se ne parla. Castel Sant’Angelo, chiusura della kermesse di Fdi, quest’anno la più lunga di sempre. Sotto il mega tendone in plexiglass l’affluenza è tale che si sta stretti stretti, incollati come sardine sotto un sole che penetra e scalda. Anna Paratore, la mamma delle due sorelle Meloni seduta in prima fila assieme alla piccola Ginevra e all’ex compagno della premier Andrea Giambruno, nei giorni scorsi aveva scherzato dicendo che avrebbe voluto vedere una delle due figlie diventare Papa. E fa quasi sorridere che Meloni inizi il suo intervento quando a 750 metri di distanza Prevost ha appena concluso l’Angelus. Ma se il pontefice consegna alla piazza parole di pace, la leader di Fdi ne pronuncia di fiele, con la sinistra costantemente nel mirino. Obiettivo colpire e affondare. Elly Schlein, innanzitutto. Perché «chi scappa dimostra di non avere contenuti» e «questo è il luogo in cui Nietzsche e Marx si sarebbero dati la mano». La premier gioca i suoi assi sull’assenza della segretaria dem che si è sfilata dal confronto a tre ad Atreju, una trappola tesa da Meloni con l’assist di Giuseppe Conte. Che la leader di via della Scrofa furbescamente ringrazia per la sua presenza alla kermesse, assieme a «Bonelli, Renzi, Marattin Calenda, Magi. Ma voglio ringraziare anche Schlein — aggiunge con una punta di perfidia — che con il suo nannimorettiano “mi si nota di più se vengo o sto in disparte o se non vengo per niente” ha comunque fatto parlare di noi», l’affondo. E a seguire un’altra sciabolata: «Il presunto campo largo l’abbiamo riunito noi e quella che dovrebbe federarli è l’unica che non si è presentata». Non ci sono bandiere di partito a colorare la sala, ma si respira destra fino al midollo, fosse altro che la sinistra «che fa le makumbe» è la nemica giurata della premier, che la cita decine e decine di volte. Mandando il delirio la platea adorante, che plaude entusiasta alla cucina italiana patrimonio mondiale dell’Unesco e ride divertita «della sinistra che rosica ed è una settimana che mangia dal kebabbaro, roba da matti…», lo sfottò della premier. Non il solo, in 63 minuti in cui dileggia e deride di continuo l’altra metà di campo. Come sulle regionali, che dovevano finire con un 5-1 salvo chiudersi con un 3 a 3, palla al centro. Eppure Schlein e gli altri si son giocati tutte le carte del mazzo, «dal riconoscimento dello Stato di Palestina nelle Marche fino all’esenzione dal bollo auto se avessero vinto in Calabria, roba che Cetto La Qualunque in confronto era Otto von Bismarck». Sarà che «si portano da soli una sfiga che neanche quando ti capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera…». In prima fila Tajani e Salvini ridono divertiti, l’ironia sferzante della premier riesce a metterli d’accordo.

Dal palco di Atreju, due anni fa, Meloni sferrò l’affondo contro il pandorogate di Chiara Ferragni, quando la vicenda della beneficenza di plastica era ancora uno strapuntino. Ora il nemico torna quello di sempre, la sinistra e i suoi volti: non solo Schlein — il bersaglio privilegiato — ma anche il leader della Cgil Maurizio Landini, la «comunista» Ilaria Salis, «la paladina del Pd Francesca Albanese», i giudici, Greta Thunberg, il Sessantotto e chi è «comunista con il ceto medio e turbocapitalista con il potere».

L’ORGOGLIO

Quando lascia da parte il nemico, Meloni rispolvera l’orgoglio. Rivendica quanto fatto in questi tre anni di governo, cita con un inglese impeccabile i titoli celebrativi del Financial Times, de Le Monde, di Bloomberg, che riconoscono a lei e al suo governo il lavoro fatto da quelli che, a inizio corsa, venivano tacciati come degli «impresentabili». Snocciola i numeri sull’occupazione, bacchettando la Cgil che sciopera «a prescindere». «Con noi — dice — l’Italia conta di più, lo Stato è tornato a fare lo Stato, la crescita si è irrobustita, il Sud è diventata locomotiva del Paese». E se «gli italiani investono in titoli di Stato italiani — rivendica — è perché si fidano». Idem le agenzie di rating e lo «spread che scende». Meloni dedica poco spazio alla politica estera, nonostante cannibalizzi gran parte della sua agenda: oggi, per dire, volerà a Berlino per fare il punto con i volenterosi sul futuro di Kiev. Ma difende l’Europa — «non è al tramonto, non è un pachiderma inutile» — anche se mai dagli affondi di Donald Trump, a cui riconosce una lettura veritiera, una critica di merito: «buongiorno Europa», sferza chi, al contrario, ne è rimasto sgomento. Ai Fratelli d’Italia chiede di «non dimenticare da dove siamo partiti» ma di continuare a essere quella «scintilla da portare di cuore in cuore, di città in città, fino a farla divampare». Come la Fiamma, che resta saldamente nel simbolo del partito. Chiude con un abbraccio corale coi giovani di Fdi, il selfie di ordinanza e le note dell’inno di Mameli. Fila via in fretta a bordo di una 500 bianca, niente auto blu. A militanti e simpatizzanti non resta che il suo cartonato, preso d’assalto per i selfie. «L’anno prossimo toccherà metterne qualcuno in più…», prende nota Giovanni Donzelli, mentre su Atreju cala il sipario.

 


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