Politics

«E le banche devono pagare»


«Giù le mani da Matteo!». Lo gridano dalle loro casacche i volontari bergamaschi, che per tutta la mattina grigliano salamelle e arrosticini (e la polenta? «Finita, prima dell’ora di pranzo»). Lo urla in coro il pratone di Pontida, folla sotto il palco e tanto spazio libero dietro: sarà che il sacro suolo è piuttosto fangoso e chi non sbandiera leoni di San Marco si piazza di lato. E lo ripetono, uno dopo l’altro, i sovranisti di mezza Europa: Wilders, Orban, Macinka, Ventura, e poi delegati di Vox e dell’Fpo austriaco, e pure (in videomessaggio) Bolsonaro, Bardella, infine Marine Le Pen. In serata, il tweet di Musk in risposta ad Orban. Cartoline patriottiche e una doppia partita, in Italia e in Ue: eccolo, il quadretto di famiglia di «quelli che – si sgola Salvini – per certa sinistra sono i bad guys, gli estremisti». Scesi nelle valli bergamasche per difendere il «patriota» Matteo, che rischia sei anni di carcere nel processo Open arms. Ma soprattutto per lanciare una nuova «santa alleanza dei Popoli europei», la battezza il vicepremier: una Lepanto 2.0, contro «l’estremismo islamico che è il cancro del mondo», ma pure contro i «burocrati e gli ecoterroristi di Bruxelles». Dove — ringhia dal palco l’ungherese Orban — «andrebbero portati tutti i migranti» («Li vogliono? — domanda — E allora se li tengano!»). Via gli Alberto da Giussano e l’acqua del Po’, dentro l’asse benedetto da Elon Musk. Che infatti era invitato e – anche se non ha mandato un videomessaggio come si sperava – ritwitta Orban.

Pontida di lotta, almeno nello spirito. Contro l’Europa che «o cambia o affonda», i migranti irregolari e quelli che delinquono (e a cui «va revocata la cittadinanza»), l’ideologia gender con cui «vogliono indottrinare i bambini nelle scuole». Ma pure Pontida di governo, il palco da cui rivendicare le riforme portate a casa negli ultimi due anni. Tipo l’autonomia, che sul pratone fa battere i cuori del popolo del Carroccio, e di cui «dopo 30 anni di sogni e speranze» lo stato maggiore leghista può finalmente brandire lo scalpo. E ormai — avverte il vicepremier — «indietro non si torna»: «Gli unici che ne hanno paura sono i politici incapaci di sinistra che rubano fiducia e voti da 50 anni».

«NON MOLLIAMO»
In una ventina di minuti di intervento o poco più, Salvini un po’ incendia un po’ fa il pompiere. Archiviato l’incidente della vigilia con Forza Italia — quel «Tajani scafista» dei giovani del carroccio che al Capitano proprio non è andato giù -, archiviati con rimbrotti e scuse pure i rigurgiti antimeridionalisti: con i colleghi di governo, assicura il segretario federale, «siamo amici ancora prima che alleati. Ogni tanto discutiamo, come succede in tutte le famiglie, ma poi si trova sempre la soluzione».

Fine dello scambio di punzecchiature con Forza Italia, quindi? Neanche per sogno. È pur sempre Pontida. E così la cittadinanza diventa «un atto di fede, il secondo mazzo di chiavi di casa vostra. Siamo il paese che ne concede di più: una riforma non serve», ripete Salvini tra la ola del pubblico. Altra sferzata agli azzurri, altro ruggito dal pratone: «Se qualcuno deve pagare qualcosa in più — mette in chiaro il leader del Carroccio a proposito dei possibili “sacrifici” che arriveranno con la manovra — paghino i banchieri, e non gli operai» (“bravooo”). «La presenza della Lega al governo — scandisce — è garanzia che aiutiamo gli italiani che hanno bisogno: siamo al governo per aumentare gli stipendi ai lavoratori». È lo stesso messaggio che poco prima aveva consegnato alla folla Giancarlo Giorgetti, per chiarire cosa intendesse con “sacrifici”: «Sono figlio di un pescatore e un’operaia, non un banchiere o un professore: so chi deve farli». E chi deve farli, lo ribadisce Salvini se già non fosse chiaro, sono le banche che «hanno guadagnato miliardi». Fumo negli occhi per Forza Italia, pronta a fare muro — anche per l’altolà dei fratelli Berlusconi a queste ipotesi — contro l’idea di tassare gli extraprofitti dei grandi gruppi bancari e assicurativi. La Lega invece insiste: «Noi-non-molliamooo», grida e rigrida il leader. Tira pugni, Salvini, ma in guanti di velluto. Senza esagerare.

Non che ce ne sia bisogno: il pubblico è già bello caldo. Michele Leombruno, vicesindaco di un paesino del foggiano, si presenta vestito a strisce, da carcerato: «Arrestate anche me!». Ai gazebo dei gadget si distribuiscono volantini con la faccia di Salvini stile manifesto da ricercato nel far west: «Colpevole di aver difeso l’Italia». Altro militante, maglietta verde e cartello: «Salvini a processo e l’Italia scivola nel cesso».

C’è tensione in vista del 18 ottobre, il giorno dell’arringa difensiva del vicepremier a Palermo, nel processo in cui rischia sei anni per sequestro di persona. «Meriterebbe un’onorificenza, non procedimenti penali», lo loda Orban, introdotto come «l’uomo che terrorizza le sinistre di tutta Europa»). Ecco Wilders: «In tribunale sarai il nostro eroe, non ti abbandoneremo. Matteo, ti amo!», grida l’olandese, inciampando in una traduzione un po’ troppo letterale di “We love you”. E lo spagnolo Fuster, di Vox: «Avanti senza paura di niente e di nessuno». Lui, Salvini, incassa e ringrazia. Poi sfodera un’immagine forte: «Nella sciagurata ipotesi che un giudice confermasse anche in terzo grado quella condanna a sei anni, varcherei le porte del carcere a testa alta». «Dovranno incarcerare anche noi!», gli fanno eco dal sottopalco. «Non possono processare e arrestare un intero popolo», chiosa il Capitano. «Non possono fermare la santa alleanza dei popoli europei che nasce oggi a Pontida». Le casse sparano Albano e Romina, bagno di selfie. A Pontida è “Felicità”: la speranza dei leghisti è che sia lo stesso a Palermo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il punto del direttore, ogni Lunedì alle 17
Iscriviti e ricevi le notizie via email

Exit mobile version