«L’integrazione europea è la nostra sola speranza»; «Chi si oppone alla costruzione di un vero mercato unico, all’integrazione del mercato dei capitali e all’emissione del debito comune, si oppone ai nostri obiettivi Ue». Mario Draghi sa quali corde toccare per avere dalla sua il Parlamento europeo nella contesa aperta con i frugali del Nord capitanati dalla Germania sulla possibilità di emettere Eurobond anche dopo la scadenza del Pnrr nel 2026. Nel giorno in cui, ad appena due piani di distanza, Ursula von der Leyen ha svelato la composizione della sua squadra di commissari assicurando di ispirarsi nelle linee guida politiche alle raccomandazioni contenute nel report dell’ex governatore della Banca centrale europea (c’è la spinta alla politica industriale Ue e un ripensamento mirato delle regole della concorrenza, ma si fanno orecchie da mercante sul debito congiunto), nella plenaria dell’Eurocamera di Strasburgo Draghi stesso ha illustrato agli eurodeputati le raccomandazioni contenute nella relazione sul futuro della competitività europea a cui ha lavorato nell’ultimo anno. E ha rinnovato un appello accorato, quello a non perdere tempo, perché la montagna di risorse necessaria, sotto forma di investimenti aggiuntivi pubblici e privati, si attesta a circa 750-800 miliardi di euro ogni anno. «Parte di questo denaro potrebbe provenire da fonti private, ma parte dovrebbe anche essere garantita tramite investimenti pubblici». Stanziamenti senza precedenti (in rapporto al Pil Ue ammontano a due volte l’entità del Piano Marshall, calcola Draghi nel report), per rispondere a una serie di sfide di scala continentale, ha ribadito ieri a un emiciclo pieno come nelle grandi occasioni, dalla necessità di gareggiare ad armi pari con Stati Uniti e Cina a quella di ridurre le dipendenze dall’estero, così da rilanciare crescita, innovazione, industria e lavoro: «Per aumentare la produttività, alcuni investimenti congiunti in progetti chiave come la ricerca all’avanguardia, le reti, gli appalti per la difesa, saranno essenziali. E questi progetti potrebbero essere finanziati da debito comune», è tornato a dire l’uomo del “whatever it takes” ai tempi della crisi dell’Eurozona, noncurante del gelo che, dopo la presentazione la scorsa settimana a Bruxelles, la sua proposta ha registrato, a partire da von der Leyen fino al frugale Christian Lindner, ministro delle Finanze tedesco. È «legittimo nutrire preoccupazioni sull’emissione comune di debito», ha risposto a distanza alle critiche dal podio di Strasburgo, pur tuttavia precisando che «è importante ricordare che questo debito non serve a coprire le spese generali dei governi o le sovvenzioni», ma semmai per obiettivi comuni che sono «già stati concordati da tutti noi». Se l’Ue starà con le mani in mano, in gioco c’è invece «il destino» stesso dell’Europa che, nella competizione globale, rischia di diventare nel tempo «meno ricca, meno equa, meno sicura e meno libera di decidere il proprio futuro».
LA LENTA AGONIA
Una prospettiva che tiene tutti «in ansia», e che ripropone la «lenta agonia» evocata pochi giorni prima. Il rapporto affidato alle istituzioni Ue, insomma, «non è sulla competitività, ma sul nostro futuro e sullo sforzo comune per rivendicarlo» ha rincarato la dose l’ex premier, che oggi tornerà a palazzo Chigi per il faccia a faccia a cui l’aveva invitato una settimana fa la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nella telefonata all’indomani della presentazione del report a Bruxelles. «Mantenere lo stile di vita europeo — ha ammonito Draghi — si baserà sul miglioramento della competitività, e il miglioramento della competitività richiede una più stretta cooperazione e integrazione tra le nazioni europee».
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